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Medicina, università privata risarcisce 12mila euro a una studentessa messinese

Il Tribunale di Roma ha scritto una pagina significativa nel percorso dell’accesso al corso di laurea in Medicina e chirurgia. Protagonista della vicenda che avrà ripercussioni per tantissimi giovani è una studentessa messinese, che ha ottenuto dall’UniCamillus il pagamento della somma versata per le attività formative legate alla professione medica.
Il giudice Alfredo Matteo Sacco ha condannato l’Università privata a corrisponderle 12mila euro, oltre alle spese processuali, liquidate in 5237 euro, oneri esclusi. La ricorrente, difesa dagli avvocati Santi Delia e Michele Bonetti, aveva chiesto la restituzione delle «spese amministrative di segreteria e dei diritti di immatricolazione e per la messa a disposizione di un ciclo telematico di seminari ancillari alla professione medica». Nello specifico, aveva rappresentato di avere partecipato, per l’anno accademico 2021/2022, nell’Ateneo privato, alla preselezione di ingresso, collocandosi in posizione utile per l’accesso a Medicina e chirurgia, e di avere versato i 12mila euro. Non solo: aveva sottoscritto, il 7 luglio 2021, «il Contratto con lo studente, che, all’articolo 7, prevede che “in caso di rinuncia o trasferimento non saranno rimborsati, in alcun caso, gli importi già pagati fino al momento di presentazione dell’istanza di rinuncia o di trasferimento”». Nel successivo settembre, aveva partecipato al test di ingresso pubblico e si era collocata in posizione utile per l’immatricolazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Però, aveva già corrisposto la somma indicata, pari alla retta di un anno di corso, senza frequentare alcuna lezione o partecipare ad alcun ciclo telematico di seminari connessi alla professione medica nell’Ateneo privato, essendosi iscritta in un altro. Chiesta invano la restituzione dei 12mila euro e promossa la procedura conciliativa, la controparte rigettò la domanda, facendo leva sulla clausola che statuisce, per chi rinuncia, la perdita di quanto versato. Così, si è giunti alla querelle giudiziaria.
Per il Tribunale di Roma, quella clausola «è da ritenersi vessatoria, in quanto chiaramente finalizzata a rendere più gravoso il recesso».

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