Era una «federazione» di due gruppi mafiosi quella smantellata nell’operazione “Provinciale”, che aderivano per fare affari soprattutto con la droga. E che avevano anche una «cassa comune», perlomeno i gruppi Lo Duca di Provinciale e De Luca di Maregrosso. Mentre non c’era, quantomeno nei parametri giudiziari adoperati di solito, un gruppo mafioso Sparacio a Fondo Pugliatti, più che altro si trattava di associati subalterni di Lo Duca. Sono parecchio lunghe, oltre le 200 pagine, le motivazioni della sentenza d’appello dell’operazione “Provinciale”, depositate in questi giorni. Le ha scritte il giudice Carmine De Rose, che componeva il collegio insieme al presidente Alfredo Sicuro e alla collega Luana Lino. Vediamo alcuni aspetti principali della sentenza. Il gruppo Lo Duca Non può che concordarsi col giudice di prime cure - scrivono i magistrati d’appello -, in ordine alla sua piena sussistenza ed operatività, dovendosi confermare appieno tale ontologico assunto e pertanto condannare, secondo i termini che meglio si espliciteranno in seguito, i suoi associati ed accoliti alle pene che si determineranno in seguito... un’analisi delle risultanze processuali e degli elementi raccolti in fase di indagine, infatti - proseguono i giudici d’appello -, lascia trasparire senza tema di smentita sia l’esistenza di tale sodalizio, sia la sua attività illecita nei diversi campi d'azione illustrati in rubrica, sia le sue dinamiche operative - tutte ricollegabili alla carismatica e direttiva figura di Lo Duca Giovanni, capo indiscusso della congrega sia il suo caratterizzarsi, nel territorio di riferimento ed oltre, secondo i notori profili di cui all’art. 416 bis c.p.. L’associazione - scrivono ancora i giudici -, secondo il compendio probatorio in atti, risulta avere operato nei campi di usura e di estorsione, gioco d’azzardo e scommesse non autorizzate, sostegno ai detenuti del gruppo (sia processuale che alimentare e logistico), dimostrando pieno ed incontrastato controllo del territorio..., palesando lo stesso Lo Duca anche aperta partecipazione e cointeressenza nelle estorsioni alle discoteche, coinvolgenti anche il gruppo mafioso del quartiere “Maregrosso”, capeggiato dal De Luca Giovanni... Il Lo Duca, in relazione alle sue condotte ed al suo interfacciarsi con i sodali e financo coi terzi, ha il classico piglio carismatico e solenne del boss mafioso, dando degli ordini precisi e dei comandi mai contestati, come quando impone al De Francesco ed agli altri ragazzi di “non muoversi” e di non cadere nelle provocazioni di altri soggetti postisi in posizione di contrasto col gruppo. Un altro passaggio dei giudici su Lo Duca: già il fatto che in alcune conversazioni - scrivono - il medesimo Lo Duca si presenti come: “PROVINCIALE!” ai suoi interlocutori è emblematico della signoria spaziale, derivante dalla sottomissione mafiosa dei consociati ivi residenti ed operanti, esercitata dal medesimo, quale capo indiscusso del sodalizio criminale ivi operante. Il gruppo Sparacio Già da un punto di vista strutturale - scrivono i giudici -, non appare affatto qualificabile come “mafiosa” una compagine criminale composta da soli tre associati, operante in un subsettore di un quartiere cittadino già “coperto” da altra assodata organizzazione mafiosa (il clan “Lo Duca” di Provinciale), mai in precedenza fatta oggetto di pronunce giudiziali anteriori che ne assodassero l’esistenza e l'operatività (non rappresentando affatto la stessa, né ontologicamente, né funzionalmente, “continuazione” alcuna del clan a suo tempo comandato da Sparacio Luigi, zio dell’imputato Sparacio Salvatore, questo si giudizialmente accertato in via definitiva), per di più, come si vedrà, non agente secondo metodologie, approcci e strategie operative chiaramente ed indefettibilmente riconducibili ad una “paradigmatica” esternazione di una forza derivante dal vincolo associativo... Ciò vieppiù, laddove il presunto capo di tale compagine, Sparacio Salvatore, nell’arco di tutte le vicende oggetto del vaglio giudiziale è apparso, manifestamente ed operativamente, più un fattuale associato del “clan Lo Duca” che un autonomo capo di un’autonoma associazione mafiosa, dotato si di indubbio carisma criminale per via della sua trascorsa appartenenza al clan a suo tempo capeggiato dalla zio Luigi, ma non governante, secondo i tratti caratteristici del dirigente/organizzatore del gruppo ai sensi del comma II° dell'art. 416 bis c.p., alcuna compagine associativa “propria”, avvalendosi certo di complici e sodali vari per una serie di intestazioni fittizie, nonché per attività nel settore delle scommesse clandestine e del gioco d'azzardo. Il gruppo De Luca Può già evidenziarsi come questa stessa Corte - scrivono i giudici -, ritenga ben sussistente la specifica accusa a carico dei coimputati in ordine a tale capo d’imputazione, dovendo confermarsi integralmente la pronuncia di primo grado sul punto relativo alla esistenza ed alla piena concreta operatività di un sodalizio criminale, localizzato in zona Maregrosso nel tessuto urbano di Messina, connotato ai sensi dell’art. 416 bis c.p. ed avente tutte le caratteristiche di una associazione di stampo mafioso. Le specifiche vicende già lumeggiate nell’ambito della c.d. “Operazione Flower”, già di per loro connotantisi con un chiaro, marcato e preponderante utilizzo del metodo mafioso da parte dei loro protagonisti odierni imputati, per incutere coercente “metus” sulle vittime delle estorsioni e delle rapine attuate dal gruppo, lette oggi anche in correlazione con le ulteriori emergenze, specie a carico di De Luca Giovanni, ma anche di Gangemi Vincenzo, interfacciantisi a più riprese con altre realtà associative operanti sul territorio messinese, appaiono vera e propria cartina tornasole della conformazione di tale gruppo criminale in guisa rapportabile ai dettami di cui all'art. 416 bis c.p., per tutta una serie di ragioni ben evidenti. È un dato di fatto incontestabile - proseguono i giudici -, che Giovanni De Luca detto “uu picciriddu”, come emerge anche dalle captazioni in cui diversi soggetti sguazzanti negli ambienti criminali mafiosi messinesi lo menzionano con riguardo, sia elemento pericoloso e di spicco nel panorama delinquenziale messinese, che la zona di Maregrosso venga riconosciuta come suo “feudo” di riferimento.