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Messina, nell'Ateneo "impermeabile" e "diviso" la parola d'ordine è pacificazione

La pacificazione più volte invocata passa anche da questi dettagli. Passa non da strette di mano che ieri, in aula magna, sono apparse una costrizione, più che una convinta chiusura delle ostilità, ma dalla presa di coscienza che oggi, con un elettorato sostanzialmente diviso a metà, un dialogo è necessario, forse persino urgente.

Pacificazione è la parola d’ordine. Lo è stata in questi giorni di campagna elettorale, lo è stata anche ieri, nella concitazione di un’aula magna stracolma e per lo più festante (lentamente chi ha visto trionfare il candidato non votato nel segreto dell’urna è andato defilandosi). Già il solo fatto che tutti, eletti e sconfitti, avvertano la necessità di parlare di pacificazione, fa capire quanto ci sia stato di sbagliato in certe dinamiche interne all’Università negli ultimi anni.

È superfluo rievocare ancora una volta il bipolarismo Cuzzocrea-Navarra, anche perché rischierebbe di ridurre il campo d’analisi che, invece, è più ampio ed ha a che fare con un Ateneo che, nel tempo, ha vissuto frizioni, spaccature, veri e propri conflitti, ma anche scandali, terremoti giudiziari, campagne stampa, non ultima la bufera che ha travolto l’ex rettore Salvatore Cuzzocrea e della quale ieri sembrava essere rimasta l’eco di una leggera brezza.

E questo perché, proprio per tutto ciò che nella sua storia ha vissuto, la comunità accademica è riuscita a costruirsi solidi anticorpi, dei quali è orgogliosa e anche un po’ gelosa. Pochi ambienti si mostrano impermeabili agli agenti patogeni esterni quanto quello accademico. In questa campagna elettorale si è parlato anche dei tentativi di “invasione di campo” di alcuni esponenti politici, con riferimento ad alcuni sostenitori di Limosani (anche se ieri si è fatto vedere a piazza Pugliatti, per tributare il suo plauso alla neo eletta, il senatore leghista Nino Germanà), ma la realtà è che è più facile il percorso inverso.

I condizionamenti esterni, se non volutamente cercati, non piacciono agli universitari. Basta riascoltare le parole pronunciate ieri da uno dei grandi “vecchi” dell’Ateneo, il prof. Giacomo Dugo, che a questo giro ha sostenuto Spatari: «I fatti recenti dimostrano che tanti non hanno in amore, come lo abbiamo avuto noi, questa Università. Non avremmo mai fatto male a un collega, sapendo di far male all'Ateneo».

L’esito del voto di ieri, per certi versi, dimostra questa impermeabilità. Le polemiche sono andate avanti per mesi – fin dallo stucchevole balletto delle plurime convocazioni delle elezioni da parte dell’ex decano, la scorsa estate –, sono rimbalzate in tutta Italia a causa dell’affaire rimborsi e dell’imbarazzante vicenda dell’azienda agricola di famiglia dell’ex rettore destinataria di pagamenti da parte dell’Università, sono culminate con le rumorose dimissioni del Magnifico, eppure non hanno scalfito più di tanto l’elettorato accademico, che ha finito per premiare la governance uscente, dando fiducia a Giovanna Spatari, certo, ma, indirettamente, anche allo stesso Cuzzocrea, che non a caso lunedì, nel giorno del secondo turno elettorale, si è trattenuto per un paio d’ore nel cortile del rettorato.

Messaggi chiari, così come un messaggio è stata interpretata da qualcuno la scelta iniziale, ieri mattina, di stravolgere il cerimoniale, riservando in aula magna a Giovanna Spatari il posto accanto al vicario Cucinotta (il più alto in grado), ben distante dal rivale Limosani. Qualcuno ha fatto notare l’errore e i due candidati sono tornati fianco a fianco.

Ma la pacificazione più volte invocata passa anche da questi dettagli. Passa non da strette di mano che ieri, in aula magna, sono apparse una costrizione, più che una convinta chiusura delle ostilità, ma dalla presa di coscienza che oggi, con un elettorato sostanzialmente diviso a metà, un dialogo è necessario, forse persino urgente.

La rettrice Giovanna Spatari ha una grande opportunità, che si concede solo a chi vince e che nel suo caso, il caso di una donna che è già nella storia per un primato – prima rettrice in Sicilia – che ci si augura diventi ordinarietà, è anche una responsabilità: tramutare quella parola, pacificazione, in un fatto reale, concreto, tangibile. L’Università ne ha bisogno. Pacificazione, ma non normalizzazione. Somiglierebbe troppo a un far finta che niente sia accaduto. E no, questo l’Università non può permetterselo.

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