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Il caso dell'untore di Messina: "De Domenico condannato “d’ufficio” senza valutare cosa è emerso in aula"

Il suo difensore ha depositato l’atto d’appello dopo il primo grado

Il Tribunale di Messina

Una condanna “d’ufficio”. Senza valutare realmente cosa è emerso in aula. Ne è convinto l’avvocato Carlo Auturu Ryolo, che ha depositato l’atto d’appello dopo la pena di 22 anni inflitta nel giugno scorso al processo “bis, al 58enne Luigi De Domenico, noto come “l’untore”. L’uomo è accusato di omicidio volontario per la morte della sua compagna, a cui contagiò la sieropositività senza mai rivelarlo. La vittima è l’avvocata messinese 45enne che poi morì di Aids, proprio perché non si riuscì a curare sconoscendo la causa della sua malattia. Una vicenda devastante che ha interessato tutta Italia, per la quale dopo l’annullamento del primo processo per la nota vicenda dei giurati “over 65” si è dovuto ricelebrare tutto il primo grado. che ha avuto lo stesso risultato: 22 anni di carcere.
«Come purtroppo avviene di frequente - scrive l’avvocato Autru Ryolo nel suo nuovo atto d’appello -, il difensore si deve confrontare con una sentenza che dal punto di vista quantitativo può definirsi imponente ma che sotto il profilo qualitativo, inteso come valutazione delle prove secondo i criteri di cui all’art. 192 c.p.p., può definirsi inesistente, in quanto l’Estensore dell’impugnata sentenza esamina un’infinita serie di presunti elementi di prova di contorno senza affrontare il tema centrale demandato alla sua valutazione».
Il legale poi elenca i punti-chiave secondo la sua lettura della vicenda e del processo. Eccoli: «1) È stata raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio, in applicazione delle regole di valutazione della prova di cui all’art. 192, 2° comma, c.p.p., che l’imputato prima della relazione con la G. fosse sieropositivo, ed è stata raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio che abbia trasmesso il virus alla G.; 2) La seconda questione, che può essere posta solo dopo aver risolto favorevolmente la prima: è stata raggiunta la prova ogni ragionevole dubbio che l’imputato prima o durante la relazione con la G. fosse consapevole di essere sieropositivo; 3) È stata raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio che la trasmissione del virus dell’HIV sia stata la causa o la concausa della morte o se, piuttosto, vi siano comportamenti successivi che siano stati da soli idonei a determinare la morte».

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