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Attilio Manca, un caso da riaprire. Quella "doccia da fare al dottore" e i tanti buchi dell'indagine

Attilio Manca

Per riaprire le indagini sulla morte di Attilio Manca sarebbe, forse, sufficiente rileggere le 136 pagine della relazione approvata, a settembre scorso, dalla commissione parlamentare antimafia. Parole dirette e crude, illuminanti e dolorose se si pensa che giungono diciotto anni dopo quella morte, poco più di quattro anni dopo l’ennesima archiviazione: «Appare incongruo giungere ad una conclusione diversa da quella secondo cui Attilio Manca sia stato ucciso, unica ipotesi ragionevole e priva di contraddizioni».

L'intercettazione chiave

Basterebbe ripartire da qui, ma finora non è bastato. Per la giustizia italiana continua a rimanere in piedi la pista del suicidio, della morte per overdose da eroina. E così tocca alla famiglia di Attilio e all’avvocato che da sempre la rappresenta, Fabio Repici, tornare alla carica e chiedere ufficialmente, con una corposa e «circostanziata» denuncia depositata la settimana scorsa alla procura distrettuale antimafia di Roma (e inviata anche alla Direzione nazionale antimafia), la riapertura delle indagini. Tra gli allegati alla denuncia c’è, naturalmente, la relazione della commissione Antimafia. Ma non solo. «Ci sono i risultati delle indagini difensive condotte negli ultimi quattro anni», spiega il legale, che non vuole aggiungere altri dettagli. Ci sono elementi di prova nuovi, sconosciuti ai tempi dell’archiviazione, decisa dal giudice il 16 luglio 2018. Ma ci sono anche delle richieste precise. In primis, l’avvio di attività di indagine coordinate tra le procure di Roma, Messina e Palermo, per mettere insieme i pezzi di riscontri avuti da collaboratori di giustizia, sia di area messinese che di area palermitana. E poi vengono sollecitate le ricerche di quella che potrebbe rivelarsi un’intercettazione chiave, emersa solo un anno fa grazie ad un’inchiesta giornalistica di Tobias Follett e Antonella Beccaria: un colloquio avvenuto nel 2003, in una masseria, tra sei-sette fedelissimi di Bernardo Provenzano e lo stesso boss, allora latitante, nella quale si diceva che «al dottore bisogna fare una doccia». Una condanna a morte. E tutto lascia pensare che quel dottore possa essere proprio Attilio Manca.

«Gravi lacune e superficialità»

Quella depositata a settembre scorso e pubblicata a gennaio non è la prima relazione della commissione parlamentare antimafia sul caso Manca. Già nel febbraio 2018, nonostante a quel tempo fu sostanzialmente condivisa la ricostruzione della Procura di Viterbo sul suicidio, la commissione scrisse di indagini «svolte in maniera superficiale», concluse senza «un provvedimento articolato contenente una lettura organica e ragionata di tutto il materiale probatorio, sì da fugare ogni dubbio». Persino la consulenza medico legale fu caratterizzata da «gravi lacune e superficialità». Lacune che sono una costante in tutto il percorso che avrebbe dovuto fare chiarezza, in quasi vent’anni, su un caso con troppi “buchi” mai coperti. Il corpo senza vita di Attilio Manca, urologo barcellonese, viene ritrovato alle 11 del mattino del 12 febbraio 2004 nel suo appartamento di Viterbo. Ed è proprio da qui, dal principio, che iniziano le lacune. Il cadavere è riverso sul letto, con i soli piedi fuori dal materasso, nudo dalla vita in giù. Non ci sono apparenti segni di violenza sul corpo, ma una grossa chiazza di sangue, fuoriuscito dal naso e dalla bocca di Manca. Gli unici segni sono quelli delle punture di eroina nel braccio sinistro di Manca, che però era mancino puro, con pessima abilità nell’uso della mano destra. Le due siringhe usate vengono trovate una nel cestino dei rifiuti in cucina e una sul pavimento del bagno: sono entrambe chiuse con il tappo salva-ago, una ha addirittura il tappo salva-stantuffo. Ci sono alcune cicche di sigarette e due flaconi di un farmaco, il Tranquirit, uno vuoto nel cestino e l’altro pieno per metà. «Nell’appartamento – scrive la commissione antimafia – non venivano trovate tracce né del materiale necessario alla liquefazione dell’eroina, né di guanti». Su diciotto impronte rilevate dalla Scientifica, quattordici sono di Attilio Manca, tre non trovano riscontro, una sola, in bagno, è riconducibile al cugino Ugo Manca (figura ricorrente, in questa vicenda), che spiegherà poi di averla lasciata a metà dicembre 2003, quando era stato ospite per una notte in casa di Attilio. Ma c’è un «dato singolare», uno dei tanti: tra la notte trascorsa da Ugo Manca in casa del cugino e il ritrovamento del cadavere, in quell’appartamento avevano trascorso alcuni giorni, a Natale, i genitori di Attilio, e il 6 gennaio erano stati ospiti a cena degli amici. «Eppure nessuna delle loro impronte veniva rilevata dalla polizia scientifica». Lacune. Fin dal principio. Un’altra lacuna è l’assenza di impronte sulle siringhe, se non una piccolissima porzione, inutilizzabile. Secondo l’esperto tossicologo del Sert di Bologna, prof. Salvatore Giancane, «la posizione del corpo sul letto per come è stato ritrovato non è compatibile con la classica caduta per abbandono da overdose». È lo stesso Giancane, nel corso della sua audizione all’Antimafia, a dichiarare di non aver mai visto, nei suoi decenni di esperienza, un’iniezione di eroina nel braccio dominante. Ancor più raro è che venga scelto il polso come “sede” di iniezione. Dubbi vengono esposti anche sugli esami condotti per capire se Manca fosse o meno un tossicodipendente (eventualità esclusa da tutti i suoi conoscenti): «Si sarebbe potuto accertare con un esame del capello, non come quello effettuato, ma con un esame segmentato». Lacune e superficialità.

La figura di Monica Mileti

Ma se la scena del ritrovamento del corpo è sempre stata nota, col suo corollario di dubbi, un fatto nuovo, tutt’altro che secondario, intervenuto dopo l’archiviazione di luglio 2018, riguarda un’altra delle figure chiave di questo caso: Monica Mileti. Ovvero l’unica accusata di aver ceduto la dose di eroina a Manca, poi rivelatasi letale. Il 16 febbraio 2021, infatti, la terza sezione penale della Corte d’appello di Roma assolve Monica Mileti «perché il fatto non sussiste». Sentenza definitiva, perché la Procura capitolina nemmeno presenta ricorso. Poche settimane prima è l’avvocato della donna, Cesare Placanica, a rivelare: «La procura di Viterbo mi aveva detto “ma falla confessare perché noi lo qualifichiamo quinto comma ed il quinto comma si prescrive a breve”. Sennonché io l’ho spiegato alla mia assistita e lei mi ha detto “ma io posso confessare una cosa che non ho fatto?”». Monica Mileti ha un ruolo in questa storia (lei e Manca si incontrano a Roma il 10 febbraio, due giorni prima la morte dell’urologo, e altri contatti avevano avuto in passato), un ruolo «opaco e verosimilmente più significativo di quello invece attribuitole», concluderà la commissione antimafia. Sta di fatto che l’unica indagata per aver ceduto l’eroina a Manca oggi risulta assolta in via definitiva da questo reato. E questa è una lacuna bella grossa.

Le intercettazioni e i pentiti

E poi ci sono le parole dei mafiosi, quelle intercettate e quelle rese dai collaboratori di giustizia. Diversi, di diverse estrazioni e caratura. Con un comune denominatore: la pista del delitto di mafia. La prima risale al 2005, l’intercettazione ambientale di una conversazione tra il capomafia di Belomente Mezzagno, Francesco Ciccio Pastoia, e il boss di Villabate, Nicola Mandalà, in cui si parla di un «medico che avrebbe curato Provenzano». Il 4 luglio 2014 è il camorrista Giuseppe Setola a raccontare ai magistrati di aver ricevuto delle confidenze, durante una comune detenzione nel carcere di Cuneo nel 2007, dal padrino di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti. Confidenze su «un oncologo» (l’errore sulla qualifica medica è irrilevante, si capirà) che aveva visitato Bernardo Provenzano per problemi alla prostata, un medico che poi era stato ucciso da un affiliato dei barcellonesi con una iniezione di eroina nel braccio sinistro «perché l’aveva visto in faccia». E aggiunge: «Era mancino, e l’hanno trovato con la siringa nel lato mancino». Pochi mesi dopo, l’11 novembre 2014, nel giorno in cui è fissato l’interrogatorio sul caso Manca, Setola dichiarerà poi di ritirare il suo proposito di collaborare con la giustizia.
Ci sono anche le parole di Giuseppe Campo, che nel 2016 racconta di essere stato contattato, nel dicembre 2003, da un barcellonese, con una richiesta: «uccidere un dottore». Quella richiesta viene poi ritirata perché saranno altri ad occuparsene, ma gli verrà rivelato in seguito che quel dottore era Manca.
E di Attilio Manca parla anche Biagio Grasso, imprenditore milazzese divenuto collaboratore di giustizia dopo l’arresto nell’operazione “Beta”: racconta di un incontro a Barcellona col boss Angelo Porcino e il mafioso Antonio Merlino (condannato per l’omicidio di Beppe Alfano), in cui Porcino manifesta nervosismo e preoccupazione perché, gli spiega Merlino, «aveva una questione da sistemare con un medico di nome Attilio Manca».
Ma le dichiarazioni più roboanti sono quelle di Carmelo D’Amico, «forse il più attendibile collaboratore di giustizia della famiglia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto», scrive la commissione. Anche qui D’Amico rivela spunti emersi da un colloquio in carcere, avvenuto all’Opera di Milano con Antonino Rotolo, esponente di Cosa nostra palermitana. La sintesi: Manca è stato ucciso dai servizi segreti per coprire la latitanza di Bernardo Provenzano. D’Amico tira in ballo anche Rosario Pio Cattafi e ambienti massonici barcellonesi. «Rotolo mi aggiunse – dice D’Amico – che di quell’omicidio si era occupato, in particolare, un soggetto che egli definì “u calabrisi”», un «militare appartenente ai servizi segreti», «se non ricordo male indicava il calabrese come “U Bruttu”, ma non so dire il motivo». Indizi che portano al killer calabrese Giovanni Aiello, ex poliziotto chiamato “Faccia da mostro” a causa del volto rimasto sfigurato durante un conflitto a fuoco. Anche il pentito Antonino Lo Giudice, interrogato nell’ambito del “Borsellino Quater”, si riferisce a lui: «Mi narrò (Aiello, ndr) di un omicidio avvenuto in Sicilia prima ancora che venisse arrestato Bernardo Provenzano... questo è un altro fatto... l'ucciso era un urologo che si era prestato di individuare una clinica... una clinica all'estero per fare operare il Provenzano». Un segreto che però Aiello, deceduto nell’agosto 2017, ha portato con sé nella tomba.

«Verità e giustizia»

La commissione parlamentare antimafia, nella sua ultima relazione, ha pochi dubbi: «La morte di Attilio Manca è imputabile ad un omicidio di mafia e l’associazione mafiosa che ne ha preso parte (non è chiaro se nel ruolo di mandante o organizzatrice o esecutrice) è da individuarsi in quella facente capo alla famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto». Un omicidio da inquadrare nei «contatti fra la latitanza di Provenzano e il territorio di Barcellona Pozzo di Gotto e della provincia di Messina» e «le considerevoli opacità su aspetti rilevantissimi riguardanti le cure sanitarie in favore del latitante corleonese». La famiglia Manca e l’avvocato Repici, da sempre, i dubbi li vogliono dipanare. Chiedono di indagare ancora, di mettere insieme i pezzi, di colmare quelle tante lacune. «È arrivato il momento di liberare la memoria di Attilio da tutto il fango che persone indegne, anche in sedi istituzionali, hanno riversato su di lui in questi anni – dice oggi Angela Gentile Manca, la mamma di Attilio, che non si è mai arresa –. Non molleremo finché non otterremo verità e giustizia complete per Attilio».

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