C’è stato un tempo in cui il clan di Giostra sotto il governo mafioso di Luigi Tibia, che temporalmente arrivò dopo Luigi Galli e Giuseppe Gatto, aveva progressivamente allargato i suoi affari sporchi in città nella cosiddetta industria del divertimento, tra lidi balneari, macchinette “mangiasoldi” nei bar, campetti di calcetto e locali notturni, con tanto di accordi verbali di gestione. Senza tralasciare i settori tradizionali come le corse clandestine, lo spaccio di droga e la detenzione di armi.
Quella stagione ormai tramontata è diventata materia processuale per l’operazione “Totem”, ovvero quegli aggeggi elettronici che sono ormai sparsi ovunque nei locali pubblici di ogni genere e succhiano fiumi di denaro per giocarci anche pochi minuti. L’emblema di quella maxi operazione antimafia delle polizia fu indubbiamente la foto dei poliziotti mentre controllavano il grande lido di Mortelle, uno dei luoghi estivi più belli di Messina su cui proprio Tibia provò a metterci le mani per la gestione.
Nei giorni scorsi proprio per questo maxiprocesso i giudici d’appello hanno depositato a circa un anno di distanza le motivazioni della sentenza di secondo grado con cui decisero, nell’aprile del 2022, 14 condanne e 4 assoluzioni totali, più quella parziale del commercialista Pietro Gugliotta, di non poco conto, dall’accusa di concorso esterno all’associazione mafiosa capeggiata da Tibia (era il liquidatore che all’epoca gestì l’aggiudicazione della gestione del lido di Mortelle).
La sentenza, si tratta di circa 160 pagine scritte a quattro mani dal presidente della corte d’appello Carmelo Blatti e dalla collega Silvana Cannizzaro, tratteggia sostanzialmente un quadro ben preciso del gruppo mafioso di Giostra con al vertice Tibia riscontrato già in primo grado, e conferma quasi integralmente l’impostazione dell’accusa. Ci sono solo alcuni aggiustamenti legati a considerazioni su alcune aggravanti o sulla sussistenza di alcune specificità rispetto ai comportamenti degli imputati. Ecco quindi qualche spunto rispetto anche alle considerazioni difensive.
Per giudici d’appello, ad esempio, «... le censure concernenti la pretesa la violazione dell'art. 521 c.p.p. per difetto di correlazione tra l'imputazione e la sentenza, o la genericità della imputazione, sono infondate. Agli imputati è stato contestato di avere fatto parte, con i ruoli meglio precisati nello stesso capo di imputazione, a decorrere dal 2011, di una associazione di tipo mafioso, armata, nota come clan Giostra, promossa, organizzata e diretta da Luigi Tibia. Diversamente da quanto asserito da qualche difensore, al Tibia non è stato contestato di essere reggente del sodalizio mafioso facente capo a Luigi Galli, prima, e a Giuseppe Gatto, dopo, ma il ruolo di capo, promotore e organizzatore del sodalizio criminoso. Si tratta, evidentemente - proseguono i giudici -, di un organismo di nuova formazione, a prescindere dal fatto che si sia posto in prosecuzione, o meno, con l’associazione, avente lo stesso nome ed il medesimo territorio di azione, già accertata con sentenze passate in giudicato. Correttamente, dunque, il Tribunale ha ritenuto che le risultanze probatorie del presente procedimento avessero consentito di accertare la sussistenza di una associazione facente capo a Luigi Tibia, con una organizzazione ben strutturata con attribuzione di ruoli e l’imposizione di regole rigide di comportamento, come osservato, ad esempio, nella vicenda riguardante Russo Giacomo, ferocemente picchiato da Tibia Luigi e De Leo Luciano, in quanto ritenuto responsabile di furti perpetrati all'interno del Lido Park, in quanto luogo gestito dai sodali e sottoposto alla loro protezione... . Palese, inoltre, risulta la sussistenza del c.d. metodo mafioso nella vicenda riguardante il violento pestaggio e il sequestro commessi ai danni di Russo Giacomo, non potendosi dubitare del fatto che, anche in tale occasione, la condotta sia stata posta in essere con modalità evocanti la forza intimidatrice e di soggezione tipica dell'agire mafioso. È chiaro, inoltre, come con tale condotta Tibia Luigi avesse inteso affermare il suo ruolo di capo clan, punendo chi aveva posto in essere condotte non compatibili con il codice che regolava la vita associativa, e la cui violazione imponeva l'applicazione di punizioni esemplari».
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