Non è stata raggiunta la prova sul piano penale sulla «fittizietà delle voci di costo portate in deduzione dal contribuente». Forse è questo il “cuore” della sentenza con cui nel gennaio scorso il giudice monocratico Simona Monforte ha deciso l’assoluzione per l’ex sindaco De Luca e gli altri imputati al processo sul Caf Fenapi, in cui l’accusa aveva ipotizzato i reati di evasione fiscale e false fatturazioni dal 2009 al 2013.
De Luca, in questo processo, non era solo. Oltre a lui c’erano il presidente del Caf Fenapi, l’ex sindaco di Alì Carmelo Satta, e il commercialista Giuseppe Ciatto, per i quali il pm Francesco Massara aveva chiesto la condanna, ed erano coinvolti anche Cristina e Floretana Triolo, l’ex sindaco di S. Teresa di Riva Antonino Bartolotta, il commercialista Francesco Vito, Carmelina Cassaniti e Fabio Nicita, oltre alla srl Caf-Fenapi come soggetto giuridico: le Triolo sono due collaboratrici di De Luca inserite nella Fenapi, Nicita è il vicepresidente del cda della Fenapi, Cassaniti è legale rappresentante del Caf Fenapi, Bartolotta è uno stretto collaboratore di De Luca, e Vito è il responsabile dell’area fiscale del Caf Fenapi (le qualifiche si riferiscono ovviamente all’epoca dei fatti, per tutti loro il pm aveva chiesto l’assoluzione e la prescrizione di alcuni reati).
A gennaio la sentenza è stata assolutoria con la stessa formula («perché il fatto non sussiste») per tutti gli imputati, quindi anche per i casi di prescrizione segnalati dal pm a carico degli altri che non avevano ricevuto richiesta di condanna, ed anche per le annualità che erano già state “aggredite” dalla prescrizione. Quindi il giudice Monforte rispetto alle richieste dell’accusa ha ritenuto invece di entrare nel merito della questione per decidere tutta la materia.
Adesso, con il deposito delle motivazioni della sentenza da parte del giudice - si tratta di 35 pagine -, si può comprendere il suo ragionamento che ha portato all’assoluzione. Scrive per esempio nelle sue considerazioni finali: «... ritiene questo giudice che le risultanze passate in rassegna, complessivamente valutate, non consentono di ritenere acclarata la fittizietà delle voci di costo portate in deduzione dal contribuente. Non può cioè affermarsi che i costi di cui si discorre siano insussistenti, e ciò che assume rilievo nell’integrazione della fattispecie penale contestata è la sussistenza del costo portato in dichiarazione, nonché la fittizietà delle fatture utilizzate a giustificazione del costo. Ogni ulteriore e diversa valutazione in punto di non inerenza o indeducibilità fiscale dei costi di cui si discorre non può assumere rilievo nel presente giudizio penale».
In un altro passaggio il giudice compie poi una disamina molto dettagliata delle differenze che esistono tra il procedimento tributario e quello penale, e scrive: «... ebbene, se sotto il profilo dell’accertamento tributario può ritenersi astrattamente sussistente la violazione fiscale laddove il contribuente non sia in grado di assolvere all’onere di dimostrare l’inerenza dei costi portati in deduzione, per quanto concerne il procedimento penale, la fittizietà dei costi, ai fini della configurabilità dei reati di frode fiscale di cui si discorre, non può farsi coincidere con l’indeducibilità dei costi, ma necessita della prova rigorosa - non meramente indiziaria, ma semmai qualificata dalla gravità e concordanza degli elementi indiziari -, dell’inesistenza della prestazione».
Secondo il giudice «... ciò che residua all’esito complessivo dell’attività dibattimentale è, al più, l’esistenza di alcune criticità nella formazione e tenuta della contabilità del Caf Fenapi srl, in ragione della descrizione generica e globale delle fatture emesse dalla Confederazione Fenapi nei confronti della società Caf Fenapi srl e della disorganica e non puntuale contabilizzazione delle voci di costo».
Al centro del procedimento penale c’erano in concreto i rapporti tra la “casa madre” della Fenapi e la rete dei vari circoli che forniscono l’assistenza fiscale in tutta Italia, e «... la pubblica accusa ha ritenuto non provata la circostanza che il Caf Fenapi abbia effettivamente sopportato il costo del personale». Ma «... le difese, dal loro canto, hanno fermamente contestato l’asserita fittizietà dei costi analizzati, offrendo agli inquirenti, prima, e alla valutazione di questo giudicante, nell’odierna fase dibattimentale, l’apporto qualificato dei propri consulenti contabili e tributaristi».
I punti specifici dei rapporti tra “casa madre” e circoli oggetto del processo erano cioè due, ovvero il mantenimento economico del “personale in prestito” e i “costi di mantenimento di sedi”. In questi rapporti l’accusa vedeva concretizzato il profilo penale, visto che «... i circoli erano dotati di autonomia patrimoniale e gestionale nonché di propri introiti, costituiti dalle somme pagate dagli stessi assistiti», e quindi - sempre secondo l’accusa iniziale poi caduta -, «... gli stessi non avrebbero in realtà ricevuto alcun rimborso a tale titolo dalla Fenapi nazionale e, conseguentemente, le fatture dalla stessa emesse nei confronti della società Caf Fenapi srl devono ritenersi fittizie».
Su questo il giudice afferma invece che «... tale impostazione teorica si scontra, sul piano logico e pur sempre teorico, con il contenuto della convenzione regolatrice dei rapporti tra Caf Fenapi e Confederazione nazionale e, sul piano concreto, con le risultanze documentali inerenti l’effettività del servizio di assistenza fiscale reso dai circoli territoriali». E come “soggetto chiarificatore” di tutti questi passaggi nel corso del processo il giudice cita anche la testimonianza in aula del responsabile del circolo Fenapi di Molfetta, «in ragione della completezza della sua escussione che ha consentito di apprezzare tutti gli aspetti sin qui messi in rilievo».
C’è un altro passaggio delle motivazioni della sentenza sulle intercettazioni telefoniche effettuate durante le indagini, che vale la pena di riportare: «... anche l’apprezzamento delle risultanze dal compendio captativo non vale a corroborare la prospettazione accusatoria. A fronte di un’attività di assistenza fiscale effettivamente svolta, la necessità di far quadrare i costi indicati con i dati contabili a disposizione può essere indice di una quantificazione approssimativa e di una contabilità tenuta in maniera confusa, ma non può far ritenere di per sé la totale inesistenza delle operazioni economiche sottese, tanto più che dalle medesime conversazioni non è emerso alcun esplicito riferimento alla falsità delle fatture contestate né alla circostanza che le voci di spesa fossero state in realtà mai sostenute».
Scopri di più nell’edizione digitale
Per leggere tutto acquista il quotidiano o scarica la versione digitale.
Caricamento commenti
Commenta la notizia