No all'assoluzione. Ecco la decisione adottata dalla corte d'assise d’appello di Reggio Calabria, che a conclusione del nuovo processo ha detto "no" alla revisione per il boss barcellonese Giuseppe Gullotti, condannato in via definitiva a 30 anni come mandante dell’omicidio di Beppe Alfano, il cronista ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto da Cosa nostra l’8 gennaio del 1993. Per l'omicidio c’è un’altra condanna definitiva, a 21 anni e 6 mesi, in questa allucinante vicenda, per colui che è stato indicato come l’esecutore materiale, ovvero il carpentiere Antonino Merlino. Il quale ha avuto già rigettata, in passato, una richiesta di rivedere la sua posizione. Il collegio ha anche disposto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, in duemila euro, in favore delle parti civili, ovvero la moglie Mimma Barbaro, i figli Sonia, Francesco e Fulvio Alfano. L’inchiesta giudiziaria portò all’individuazione del mandante del grave fatto di sangue, il rappresentante di Cosa nostra a Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti - condannato a 30 anni di carcere nel 1999 - riferimento su quel territorio delle grandi "famiglie" mafiose di Palermo e di Catania, per conto delle quali gestiva gli affari legati alla costruzione dell’autostrada Messina-Palermo, e curava le latitanze dei capi mandamento, come Nitto Santapaola, in una zona ritenuta tranquilla dagli inquirenti e individuata come "Sicilia babba", frutto della convinzione che non vi fosse operante alcuna cosca mafiosa del livello criminale catanese e palermitano. Beppe Alfano, 47 anni, in gioventù militante del Msi-Dn, padre di tre figli in giovanissima età al momento della sua scomparsa, era insegnante di materie tecniche. Con le sue inchieste giornalistiche e in numerosi interventi pubblici, aveva scoperchiato gli affari illeciti fra mafia e poteri ufficiali di Barcellona Pozzo di Gotto e dintorni, la presenza corruttiva e sanguinaria della grande mafia, le cointeressenze della politica corrotta con logge massoniche spurie, le estorsioni, fino a far emergere le irregolarità negli appalti pubblici, i traffici di droga e di armi. Prima di ucciderlo, tentarono persino di corromperlo con una offerta di denaro (39 milioni di lire) per farlo desistere dal suo modo di fare giornalismo - come scrisse anni dopo la figlia Sonia - ma a nulla valsero "imbasciate" e i tentativi di bloccare la sua penna. Quanto, invece, fosse ormai insidiosa l’infiltrazione mafiosa a Barcellona di Gotto, fu testimoniato dall’iniziativa del boss Giuseppe Gullotti di corrompere l’ex pubblico ministero Olindo Canali con la promessa di 300 mila euro, di cui 50 mila consegnati, per ottenere il verdetto di assoluzione nel giudizio d’appello "Mare Nostrum" celebratosi a Messina quale mandante del duplice omicidio Iannello-Benvegna, accaduto il 17 dicembre 1992, durante l’infuriare di uno scontro armato tra opposte fazioni mafiose per il controllo del mercato agrumicolo locale, i centri di distribuzione alimentare e i trasporti nella città del messinese tirrenico. Olindo Canali fu infatti l’autore di un memoriale in cui si esprimevano forti dubbi sulla responsabilità di Gullotti per la morte di Alfano e si chiedeva la revisione della sua condanna. L’ex magistrato, per quella vicenda, è adesso imputato, con il rito abbreviato, per corruzione in atti giudiziari, insieme al collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, dinanzi al gup del Tribunale di Reggio Calabria, Vincenza Bellini. L’avvocato Fabio Repici, dopo la sentenza, afferma che «era l’unico esito ragionevole in un giudizio di revisione sul quale grava l’ombra della corruzione in atti giudiziari nel processo a carico dello stesso Gullotti, del magistrato Olindo Canali e del collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico. Ora auspichiamo passi avanti nel procedimento della Dda di Messina e negli accertamenti fra Messina e Reggio Calabria sui gravissimi depistaggi coi quali si è tentato di occultare quello che ormai è evidente: l’omicidio del giornalista Beppe Alfano fu un delitto fondamentale nel biennio stragista di Cosa Nostra 1992/93, al quale diedero il loro apporto esponenti di apparati deviati dello Stato».