Ha 53 anni Antonino Merlino, ex carpentiere ed ex autotrasportatore barcellonese. Gli ultimi venti di questa sua vita li ha trascorsi come killer riconosciuto in via giudiziaria definitiva per l’omicidio di Beppe Alfano, il cronista ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto quasi trent’anni addietro, l’8 gennaio del 1993. Sta ormai finendo di scontare una condanna a 21 anni e 6 mesi di reclusione. L’ordine di ucciderlo secondo la giustizia italiana lo ebbe dal suo capomafia di riferimento, il reggente autorizzato di Cosa nostra barcellonese in quel periodo, il boss Giuseppe Gullotti, anche lui condannato in via definitiva a trent’anni di carcere per quella esecuzione in via Marconi. Il perché di quell’ordine, nonostante una teoria di processi ormai da tempo conclusi, è rimasto quasi sempre abbastanza fumoso tra i faldoni impolverati e dimenticati di questa storia, l’ottava amara morte di un giornalista in Sicilia. Eppure, dopo quasi un trentennio di sporche nebbie giudiziarie e depistaggi, catture mancate e sorprendenti memoriali processuali, verbali scomparsi e latitanze eccellenti, bobine audio sparite e pistole svanite nel nulla, l’indagine ter sulla morte di Alfano potrebbe essere veramente, e finalmente, ad un punto di svolta. Perché? Proprio Antonino Merlino - ed è una notizia oggettivamente clamorosa dopo tutti questi anni -, che in silenzio sta scontando la sua condanna senza aver mai detto una parola, nei prossimi giorni sarà ascoltato in località protetta, in presenza del suo storico legale di fiducia, l’avvocato Giuseppe Lo Presti, dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Messina. È questo è praticamente “l’atto secondo” della nuova fase dell’indagine ter, visto che nelle scorse settimane era stato nuovamente iscritto nel registro degli indagati per l’omicidio del giornalista come presunto esecutore, dopo una prima archiviazione, il barcellonese Stefano Genovese, che in questa storia è assistito dall’avvocato Diego Lanza. Adesso le carte giudiziarie in tavola sono parzialmente cambiate per il procuratore aggiunto Vito Di Giorgio, che ormai da anni con convinzione sta appresso a questa inchiesta, e non più tardi di un anno fa proprio per Genovese, scrisse una richiesta di archiviazione che in realtà era un vero e proprio atto d’accusa, forte e chiaro, contro trent’anni di depistaggi per la morte di Alfano. A quell’epoca sul suo tavolo il pm aveva solo le dichiarazioni dell’ex capo dell’ala militare barcellonese, poi pentito, Carmelo D’Amico: raccontò in un verbale di aver visto proprio Genovese sul luogo dell’agguato quella notte di gennaio del 1993. Troppo poco per andare avanti, anche se il fratello di D’Amico, Francesco, aveva confermato le stesse cose, ma per averle apprese de relato.
Cambia lo scenario
Ora lo scenario però è cambiato. Alle dichiarazioni di D’Amico si sono aggiunte sulla scrivania del magistrato quelle del pentito milazzese Biagio Grasso. Che alcuni mesi addietro, in un vecchio processo satellite dell’omicidio Alfano per false dichiarazioni di due testi durante il procedimento di primo grado per l’uccisione del giornalista, rispondendo alle domande del legale di parte civile della famiglia del cronista, l’avvocato Fabio Repici, ha fatto alcune dichiarazioni clamorose. In sintesi Grasso, ha dichiarato che raccolse le confidenze proprio di Antonino Merlino, con cui era molto amico, fissando tra l’altro due punti precisi: Merlino gli confessò di non aver ucciso Alfano e di conoscere anche il “vero” killer, pronunciando poi il nome di Stefano Genovese. Ecco perché i magistrati della Dda di Messina coordinati dal procuratore capo Maurizio de Lucia hanno fissato dopo 28 anni un colloquio con Antonino Merlino. Perché probabilmente vogliono chiedergli una volta per tutte se quelle confidenze fatte al pentito Biagio Grasso erano vere, e soprattutto di raccontare finalmente la sua verità: se quella sera fu lui a sparare in via Marconi con la calibro 22, oppure se era a giocare a bowling o da qualche altra parte, se quella sera vide Maurizio Bonaceto, l’ex collaboratore molto equivoco e dalla storia parecchio controversa che poi l’avrebbe inchiodato al processo come esecutore materiale. Sullo sfondo di tutta questa vicenda che potrebbe registrare una clamorosa svolta si agitano da tempo altri scenari, che non sono affatto slegati dal contesto principale. Il boss barcellonese Giuseppe Gullotti ha da parecchio tempo depositato tramite i suoi difensori, gli avvocati Franco Bertolone e Tommaso Autru Ryolo, un’istanza di revisione proprio del processo per l’omicidio Alfano, per il quale ha subito la condanna a trent’anni di reclusione. Un’istanza per anni rimasta sottotraccia - fu depositata nel 2016 -, che dopo alcuni rimpalli per questioni di competenza territoriale è “riemersa” a Reggio Calabria ed è in corso di decisione definitiva proprio in questi giorni. Ma c’è altro. A Reggio Calabria nel febbraio di quest’anno il gup Cinzia Bellini ha disposto il rinvio a giudizio di Gullotti, per corruzione in atti giudiziari con l’aggravante mafiosa. L’imputazione è in concorso con il magistrato monzese Olindo Canali, che fu pm a Barcellona Pozzo di Gotto e pm al processo di primo grado per l’omicidio Alfano, e anche per il collaboratore di giustizia barcellonese Carmelo D’Amico. Per Canali e D’Amico è in corso il giudizio abbreviato. Il processo si celebra a Reggio Calabria per il coinvolgimento di Canali, che all’epoca era in servizio nel distretto giudiziario di Messina e fu spesso applicato alla Dda in indagini di mafia.
La corruzione
L’imputazione a carico di Gullotti - secondo quanto ha riferito il pentito D’Amico -, è di avere corrotto Canali con una promessa di 300 mila euro, di cui 50 mila consegnati, per ottenere grazie al magistrato Canali l’assoluzione nel giudizio d’appello del maxiprocesso Mare Nostrum dal duplice omicidio Iannello-Benvenga, e per fargli ottenere la revisione per l’omicidio Alfano. Una delle vicende di corruzione in atti giudiziari sarebbe avvenuta quindi per Gullotti tra il 2008 e il 2009, in concorso con Canali e D’Amico, e vede al centro il maxiprocesso “Mare Nostrum” e l’indagine per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano. Secondo il capo d’imputazione l’ex pm Canali avrebbe «... accettato per sé la promessa della consegna di denaro di trecentomila euro, della quale riceveva una prima parte di cinquantamila euro», sempre da D’Amico. Per fare cosa? In sostanza per cercare di “ammorbidire” la posizione del boss Gullotti scrivendo quel famigerato memoriale che piombò letteralmente in aula durante il maxiprocesso “Mare Nostrum”. Memoriale in cui esprimeva forti dubbi sulla colpevolezza di Gullotti per la morte di Alfano, e in cui scriveva che occorreva “chiedere ed ottenere la revisione della sua condanna”. Non finiscono mai di stupire le “cose barcellonesi”.