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'Ndrangheta, i Morabito e Messina: quando il latitante fu processato per minacce a un docente

Rocco Morabito catturato in Uruguay

L'ombra nera delle 'ndrine calabresi e anche della “famiglia” Morabito storicamente non s'è mai fermata alla sola Calabria, ma ha aperto una grande finestra d'interessi criminali anche a Messina. Giuseppe Morabito “u tiradrittu”, capostipite della 'ndrina di Africo, secondo quanto raccontano le cronache giudiziarie di questi ultimi decenni s'è sempre interessato, e parecchio, anche di Messina e della sua Università, che è stata la «prima stazione appaltante della città».

Una torta di miliardi da gestire troppo appetibile per lasciarla ad altri. E proprio a Messina sin dagli anni '70, lo dicono tra l'altro diversi rapporti investigativi sia della Dia che dei carabinieri del Ros, oltre che alcune risultanze processuali ormai definitive, nei decenni scorsi la 'ndrangheta e Cosa nostra hanno creato una sorta di camera di compensazione di interessi comuni, una zona grigia dove è stato necessario tenere molto bassa l'attenzione di magistrati e investigatori per poter svolgere il proprio “lavoro” senza troppe noie: appalti da pilotare, grandi quantitativi di droga da commerciare, grosse partite di armi da piazzare, barre d'uranio da spedire in paesi africani o del Sudamerica. Ancora oggi, a sentire le ultime recenti relazioni di magistrati e investigatori, è sempre così.

La storia dei Morabito in riva allo Stretto

Bisogna partire da questo dato per capire l'influenza che i Morabito hanno avuto anche al di là dello Stretto. Non è nemmeno azzardato ipotizzare che nella sua lunghissima e protettissima latitanza “u tiradrittu” qualche visita a Messina l'abbia anche fatta. Nel settembre del 2000 gli uomini della Squadra Mobile peloritana fecero irruzione in una casa a Faro Superiore, uno dei villaggi collinari a nord della città, dove si domina l'intero Stretto e si vede bene la costa calabrese: gli investigatori cercarono e trovarono il marito di una nipote del “tiradrittu”, cioé una delle figlie di Rocco Morabito, fratello del boss. All'epoca si ipotizzò che proprio in quella “insospettabile” casa qualche sua visita eccellente poteva anche esserci stata.

Nel gennaio del 2006, nella loro relazione annuale sulle dinamiche criminali della provincia di Messina, i sostituti della Direzione nazionale antimafia Carmelo Petralia e Giusto Sciacchitano, dedicarono un capitolo intero dal titolo “La 'ndrangheta a Messina”, in cui i due magistrati della Dna esaminarono le dinamiche criminali legate alla 'ndrangheta sin dagli anni '70. Per la presenza del plesso universitario «sono affluiti in città individui direttamente collegati alle più importanti cosche 'ndranghetiste calabresi delle zone tirreniche (Piromalli, Mammoliti, Bellocco) e ioniche (Morabito, Pelle, Nirta etc.), che si sono legittimamente iscritti all'Università, apparentemente allo scopo di frequentare le lezioni e sostenere gli esami, prendendo alloggio a Messina, ora alla Casa dello Studente, ora in case private». La fetta di potere che si ritagliarono secondo i magistrati acquisì «man mano sempre maggiore influenza, inserendosi (anche attraverso associazioni studentesche a loro asservite) negli organi decisionali dell'Ateneo (Consiglio di Amministrazione, Consiglio dell'Opera Universitaria, Consigli di Facoltà), ed allargando sempre più l'ambito del loro controllo che ha finito per spaziare dagli esami al condizionamento degli appalti e delle forniture, sino a tutti i benefici connessi allo status di studenti fuori sede».

In città quindi si è assistito tra i '70 e i '90 all'arrivo di «personaggi provenienti da diverse località del territorio calabrese (Africo, Melito Porto Salvo, Seminara e addirittura Vibo Valentia, cioè luoghi ubicati sia sul versante ionico che su quello tirrenico della provincia di Reggio Calabria), al fine della costituzione di un nuovo sodalizio criminale capace di operare a volte anche in modo autosufficiente rispetto alle determinazioni dei gruppi di primitiva appartenenza, da cui comunque hanno mutuato struttura, metodi operativi e valori criminali condivisi», quindi un'organizzazione staccata dalla “casa madre”. I magistrati citarono poi «l'omicidio di Sansalone Luciano. Questi, già consigliere comunale nel suo paese natale, candidato per la Dc alle elezioni comunali di Messina precedenti il suo omicidio, fondatore di un sindacato dei dipendenti universitari (SADER), leader dell'Associazione Universitari Democratici (AUD), contitolare di un'agenzia immobiliare e “Grifo” della goliardia locale, venne infatti ucciso a colpi di fucile da killer rimasti ignoti, il 6 dicembre 1984». Al centro interessi legati al mondo degli appalti: «alcuni mesi prima di venire ucciso, aveva manifestato al direttore amministrativo dell'Università un personale interesse per gli appalti universitari».

Il processo Panta Rei

Il nome di Morabito in tempi più recenti è soprattutto stato legato a due delle vicende più cupe della storia di Messina: l'omicidio della “città nascosta”, ovvero l'uccisione del professore universitario Matteo Bottari, che venne ammazzato da un unico colpo devastante di fucile caricato a pallettoni al viso la sera del 15 gennaio 1998, e poi il processo “Panta Rei”, uno dei più importanti degli ultimi anni, già definito in tutti i gradi di giudizio con una serie di condanne. Un processo che ha raccontato l'oppressione mafiosa subita dall'Università di Messina per trent'anni, a cominciare dal connubio tra frange dell'eversione nera ed esponenti della 'ndrina dei Morabito negli anni '70, per passare alla gestione degli appalti e alla «compravendita di esami» degli anni '80 e '90. In mezzo un lungo rosario di attentati, intimidazioni, minacce e ricatti a professori universitari, oppure pagamenti milionari per ottenere lauree senza nemmeno sostenere un esame.

Attentati che hanno visto come protagonisti quasi sempre gli studenti “fuori corso a vita” calabresi, alcuni dei quali legati alla 'ndrina di Morabito. Proprio lui, “u tiradrittu”, è stato uno dei 66 imputati del procedimento “Panta Rei”. Un processo in cui l'Università, dopo essersi finalmente scrollata di dosso tutto questo marciume, fu parte civile. E la verità sull'oppressione all'ateneo nel processo “Panta Rei” venne a galla udienza dopo udienza, tanto che fu coniato il termine di «'ndrina messinese» per raccontare di un gruppo di calabresi che tra gli anni '80 e '90 si stabilirono definitivamente nella città siciliana senza perdere affatto i contatti criminali con la “madrepatria”, lo stesso non può dirsi dell'omicidio del prof. Matteo Bottari, quell'unico colpo di fucile a pallettoni che nel '98 risvegliò di colpo un'intera e sonnolenta città e originò il “caso-Messina”. Ancora oggi rimane un caso irrisolto. Morabito nella prima fase delle indagini della Dda peloritana venne addirittura indicato come uno dei mandanti di quella esecuzione. La sua cattura nel 2004 e le sue dichiarazioni su questa vicenda ancora oscura, purtroppo non rappresentarono mai la vera svolta nell'inchiesta, e non s'è mai compresa la ragnatela di interessi illeciti che originò quella tragica morte. Le prime avvisaglie di ciò che sarebbe accaduto, dentro e attorno al nostro Ateneo, si ebbero addirittura nel lontano 1976 quando il Tribunale di Messina, caso allora abbastanza inconsueto, applicò la misura della sorveglianza speciale, con divieto di soggiorno a Messina, a cinque studenti universitari calabresi, dopo una serie di episodi di violenze e minacce avvenute all'interno della Casa dello studente. Tra loro c'era il giovane Carmelo Laurendi il cui nome figurò poi nell'operazione “Panta Rei” della Distrettuale antimafia di Messina.

L'omicidio del Grifo

Ma un evento che destò notevole impressione fu l'omicidio di Luciano Sansalone, studente di Locri, “Grifo” dell'Università di Messina (si chiamava così all'epoca il capo della goliardìa studentesca dell'Università di Messina). Il 6 dicembre del 1984 venne centrato da un colpo di fucile caricato a pallettoni appena entrato nel portone di casa sua, in via Palermo. Un delitto che non è stato mai chiarito, nonostante alcune interessanti dichiarazioni di collaboratori di giustizia. L'ex collaboratore di giustizia messinese Luigi Sparacio, ad esempio, indicò Sansalone come il referente di alcune importanti famiglie calabresi che erano interessate ad “entrare” nella gestione degli appalti del Policlinico. Segnalato in compagnia di Rosaniti, Micheletta e Strangio (nomi poi coinvolti tutti nella “Panta Rei”), il “Grifo” avrebbe commesso un errore: si era lasciata sfuggire l'aggiudicazione di un appalto. Per questo le cosche calabresi avrebbero chiesto al clan messinese di Giostra, a quel tempo retto da Mimmo Cavò, la “cortesia” di toglierlo di mezzo. Questa versione, però, contrasta con quanto raccontato da due collaboratori calabresi i quali sostennero che ad un certo punto Sansalone litigò con i colleghi che gestivano lo spaccio della droga negli ambienti universitari messinesi. Nell'uno o nell'altro caso emerge che gli interessi in quegli anni cominciarono ad essere notevoli e pertanto il controllo sull'ateneo doveva essere assoluto, non consentendo a nessuno di “sgarrare”.

Le minacce al professore

C'è poi una lunga scia di intimidazioni, minacce e attentati all'interno dell'ateneo, tra gli anni '70 e '90, di cui si resero protagonisti gli studenti d'oltre Stretto. Nel 1988 tre studenti calabresi, e tra loro c'era proprio il superlatitante Rocco Morabito, finirono sotto processo, e uno di loro venne condannato (Morabito fu comunque assolto da quelle accuse), per le minacce a un docente universitario di Lingua e Letteratura inglese, il prof. Giovanni Nicosia, che non aveva capito bene gli “inviti” dei suoi interlocutori a promuovere un collega. Soltanto quando apparve una pistola e venne messa sulla scrivania il messaggio divenne inequivocabile. Anche in quella occasione del 1988, oltre al Morabito c'era un nome che ritornò poi nella “Panta Rei, ovvero quello di Annunziato Zavettieri. Andando avanti nel tempo arriviamo al 1992 quando la prof. Maria Calapso, docente di Matematica finanziaria, denunciò l'atteggiamento intimidatorio nei suoi confronti di due studenti che intendevano far concludere gli studi a un loro collega. Anche in quell'occasione un nome che riapparve nella “panta Rei”, quello di Ferrante. E andando avanti nel tempo arriviamo alla maxi-inchiesta denominata “Aula Magna” sulla compravendita di esami in alcune facoltà universitarie. Quella inchiesta focalizzò le pressioni di un gruppo di calabresi che ebbero purtroppo effetto, e qualche docente scelse la strada del compromesso e del denaro. Si tornò alle intimidazioni con il “contatto” col prof. Giovanni Romeo, titolare di Chimica organica, avvicinato da tre studenti dapprima sotto casa e poi all'interno dell'ateneo. Queste le vicende più note, ma la magistratura messinese negli ultimi venti anni ha svolto indagini su almeno una trentina di casi di minacce, telefoniche e verbali, che sono state segnalate dai docenti (per esempio i colpi di pistola che vennero esplosi contro l'abitazione del compianto prof. Vincenzo Scalisi, docente di Istituzioni di diritto privato a Giurisprudenza). E non bisogna dimenticare gli episodi che non sono stati denunciati, per paura di subire ritorsioni.

L'ordigno a Mineralogia

Alle intimidazioni bisogna aggiungere alcune vicende rimaste oscure: nel febbraio del 1996 un ordigno esplose sulla tettoia dell'aula di Mineralogia; nel giugno del 1996 un incendio di chiara origine dolosa distrusse il piano terra dell'Istituto di Diritto privato; quattro mesi dopo una bomba carta venne fatta scoppiare accanto alla segreteria della facoltà di Giurisprudenza. E sempre in quel periodo, siamo tra la fine degli anni '90 e l'inizio dei 2000, ci fu il ritrovamento di un borsone sportivo con un fucile a canne mozze e due pistole all'interno di una stanza della Casa dello Studente di Messina. Armi che, evidentemente, dovevano servire a qualcosa di molto importante e che non si trovavano in quel luogo per puro caso. Quindi la scoperta di alcuni timbri rubati nell'ateneo, di libretti universitari perfettamente contraffatti, di statini già pronti (con tanto di voto) per essere depositati.

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