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Coronavirus Messina, dodici mesi fa iniziava tutto. Dodici mesi dopo tutto è cambiato

Dal primo caso del 6 marzo 2020 all’avvio della campagna di vaccinazione: in mezzo, capitoli di un libro di storia di cui non sono state ancora scritte le ultime pagine. Tra errori e speranze

Nonna Concetta, il 22 aprile, lascia il Policlinico di Messina, dove è stata ricoverata per più di un mese. È una delle ospiti della casa di riposo “Come d’incanto” e durante il ricovero compirà 100 anni, festeggiata dagli infermieri.

Trecentonovantasei. Ed è un calcolo per difetto. Trecentonovantasei. Una media di più di una vittima al giorno, nell’anno in cui si è consumata la strage silenziosa più drammatica, col tributo di vite più alto, da quando, in pochi minuti, nel 1908 un terremoto spazzò via Messina. Stavolta è stata una “scossa” lenta, costante, logorante. Una scossa chiamata Covid-19 (all’inizio era semplicemtne “Coronavirus”, come gli altri raffreddori già conosciuti, ingenuo scudo semantico di carta velina) che ha portato via più di 400 messinesi, in realtà, perché ci sono vittime “invisibili”, mai finite nei bollettini in quanto decedute lontano dalla città o all’interno di un’ambulanza, o ancora sul letto di casa o in una clinica, come i 17 che non ce l’hanno fatta alla San Camillo, tra il 23 novembre e il 14 dicembre.
Questo libro di storia senza ancora un capitolo finale si apre esattamente un anno fa. Derubricando ogni altra notizia d’attualità a banale contorno di un argomento così grande da diventare “l’argomento”. «Il divario tra quella vita e questa era tale che lui non riusciva ancora a coglierlo appieno», scrive Stephen King in uno dei suoi romanzi più amati, “L’ombra dello scorpione”, che narra proprio di una terribile epidemia globale. “Quella vita”, per Messina, è la vita prima del 6 marzo 2020, il giorno in cui nelle redazioni giunge notizia di un primo caso positivo in provincia, un vigile del fuoco di Sant’Agata Militello (che nella pagina accanto, per la prima volta, racconta il suo incubo). “Questa vita” è, invece, la vita iniziata esattamente il giorno dopo. Come un orologio le cui lancette sono state sostituite, perché quelle vecchie non erano in grado di segnare l’ora giusta per questo tempo. Il giorno dopo scopriamo cosa significa isolamento domiciliare, iniziamo a prendere confidenza con terminologie fino a una settimana prima lontane: tampone, sierologico, asintomatico, tracciamento, autocertificazione. Per arrivare, così rapidamente – quanto hanno iniziato a correre, quelle lancette – a parole che davvero avevamo letto solo nei romanzi, ascoltate in film apocalittici: coprifuoco, quarantena. Fino a scoprire che un’altra parola, lockdown, non dà solo un onomatopeico senso di chiusura: è, una chiusura. Dentro casa, al massimo sui balconi a cantare, nella frenetica attesa di portare il cane a far pipì o di sfruttare la finestra consentita per gettare la spazzatura, sospirando al pensiero della lunga fila da affrontare, mascherina sul volto e guantini in lattice (poi rivelatisi non così tanto utili) alle mani, per fare la spesa. Quelle che più che spese sono scorte, come se in ogni casa ci fosse una botola utile a raggiungere un bunker (sì, come quelli dei film).
I palinsesti televisivi non si reggono più sui quiz pre-Tg ma sulle dirette del premier Conte e, a queste latitudini, del sindaco De Luca, da quello che definisce, giusto per adeguarsi ai tempi, “gabinetto di guerra”. Nel frattempo le strade si svuotano e gli ospedali si riempiono. Non come al Nord, non ancora, almeno. I camion dell’esercito in fila a Bergamo, a Messina sono le ambulanze in via Primo Settembre, che uno dopo l’altro portano via gli anziani dalla casa di riposo “Come d’incanto”. La ferita più dolorosa, perché figlia di inaccettabili tempi d’intervento, finiti al centro dell’inchiesta più importante (non l’unica) sull’ondata pandemica in riva allo Stretto, non foss’altro perché 34 di quei nonnini oggi non ci sono più (e una di loro sarà, il 24 marzo, la prima di quelle trecentonovantasei vittime).
Nonostante tutto, la prima ondata porta con sé una colpevole e tremenda illusione: che tutto sommato, fatta eccezione per alcuni, circoscritti focolai, Messina sia stata risparmiata. Colpevole e tremenda, come la peccaminosa consolazione che va per la maggiore: «Erano anziani, avevano patologie pregresse».
Così le pagine di questo libro di storia scorrono frammentate in capitoli, come in ogni libro. Capitolo 1: gli sciatori di Madonna di Campiglio. Capitolo 2: dallo Stretto non si passa. Capitolo 3: a ciascuno la sua (ordinanza). Capitoli 4 e 5: la Renault 4 e il vaffa al ministro. Capitolo 6: la Family Card. Già, perché man mano che quelle lancette compiono i propri inesorabili giri, si scoprono gli effetti ulteriormente collaterali della pandemia. Nei conti correnti, nei portafogli, dietro le saracinesche che si abbassano, nella cassa integrazione “Covid” (sì, la chiamano proprio così).
La colpevole e tremenda illusione si manifesta in estate. L’estate delle cicale: per chi dovrebbe prevenire, e non lo fa, una seconda ondata (in termini di posti letto, in termini di un’Asp da rifondare); per chi pensa che sia tutto finito.
E invece a settembre tutto ricomincia, quasi annunciato dal suono delle campanelle di scuole destinate a chiudere presto. Stavolta il glossario si arricchisce di colori, nel meno rassicurante degli arcobaleni: rossa, come Galati Mamertino, la prima zona “chiusa” nel Messinese; arancione, come sarà la Sicilia per tutto il mese di novembre; gialla, la sfumatura che scalza il verde nel tinteggiare la speranza. Nera, come la seconda ondata, che miete quasi 6 volte le vittime della prima (337 contro 59), di cui 135 solo a gennaio.
Stavolta non ci sono focolai, non ci sono trincee: il nemico è ovunque, la più classica delle guerre di logoramento (uno storico la definirebbe guerra urbana, casa per casa). E al nemico invisibile si aggiungono quelli inaccettabili dei tempi d’attesa per i tamponi, delle quarantene senza fine, degli squilli di telefono rimasti senza risposta. Alle file ai supermercati si sostituiscono quelle in auto, in attesa che quel “coso” tanto simile ad un cotton-fioc, solo un bel po’ più lungo, venga infilato su per il naso.
Qualche formica si accorge che non è più tempo di cicale, l’Asp viene commissariata, il suo condottiero La Paglia disarcionato (non senza aver portato, prima, il sindaco De Luca a tirar fuori gli artigli e l’immancabile bluff delle dimissioni, ma al tempo del Covid).
Il 27 dicembre, con le lancette che ancora corrono ma stanno per aprire le porte al nuovo anno, Giacomo Caudo, il presidente dell’Ordine dei medici, si vaccina. È il primo messinese. Lo chiamano “V-Day”, perché ormai fa tutto film. Ma è soprattutto l’inizio di nuovo capitolo, forse quello decisivo. Per tornare a “quella vita”, scriverebbe King, senza compiere l’errore – colpevole e tremendo – di dimenticare com’è stata “questa vita”.

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