Era «di natura vessatoria» per il risparmiatore che s’era rivolto alla banca. In pratica il cliente non era più “padrone” del suo denaro. E, rispetto a quanto deciso dai giudici di primo grado che l’avevano annullato, è un contratto d’investimento finanziario da ritenersi nullo. Hanno deciso così i giudici della prima sezione civile della Corte d’appello, presieduta da Maria Celi, dando ragione ad un cliente del Montepaschi che a suo tempo aveva sottoscritto un contratto “121 soluzione futuro” (una variante dei contratti “My Way” e “4You” stipulati dalla ormai ex Banca 121, poi incorporata dall’Mps).
Con la sentenza, interessante sotto più profili, i giudici hanno quindi “azzerato” il contratto, condannando la banca alla restituzione in favore del cliente delle somme investite nel suo interesse, oltre alla rivalutazione e gli interessi legali maturati.
Il risparmiatore, che dopo aver sottoscritto il contratto per tutelarsi si è rivolto ad un avvocato, il prof. Massimo Galletti, lamentava soprattutto una circostanza ben precisa. E cioé che il contratto di finanziamento prospettato come un piano di accumulo in grado di soddisfare le sue esigenze previdenziali in realtà era un prodotto finanziario strutturato con finanziamento accessorio, che attribuiva alla banca la facoltà di investire un certo importo, contestualmente mutuato, nell’acquisto di strumenti finanziari ad alto rischio, spesso in portafoglio della stessa banca, la cui disponibilità veniva oltretutto sottratta all’investitore e costituita a garanzia del finanziamento.
Ecco cosa scrivono i giudici in sentenza su questa tipologia di contratto: «... in sostanza la banca con tale tipologia di contratto, senza alcun rischio (dato che i titoli sono posti a garanzia) lucra più volte le commissioni: una prima volta per il finanziamento concesso, una seconda volta per l’acquisto dei prodotti (in alcuni casi della stessa banca), una terza per l’eventuale gestione del fondo, e una quarta volta per le commissioni e le spese forfettarie sul conto corrente ordinario». Mentre, per converso, «... il cliente che si credeva investitore con tale tipologia di contratto si è ritrovato ad essere egli stesso esposto nei confronti della banca ove avesse voluto recedere dal contratto rischiando di perdere non solo il danaro investito ma obbligato a corrispondere un ulteriore importo dato dalle somme di tutte le rate del finanziamento ancora a scadere (capitale + interessi corrispettivi) attualizzate mediante l’applicazione del tasso swap per una durata pari al tempo che intercorre dal recesso alla naturale scadenza del finanziamento».
Motivo per cui, secondo quanto scrive l’estensore del provvedimento, il giudice Francesco Treppiccione, «... un siffatto rapporto contrattuale è nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c. in quanto contrario a norme imperative ponendosi in contrasto con i principi di cui agli artt. 38 e 47 della Costituzione, sulla tutela del risparmio e l’incentivo delle forme di previdenza, anche privata».
Afferma il prof. Galletti nel commentare la sentenza: «Viene espresso un giudizio di riprovazione sul piano etico-sociale nei confronti della banca, giustificato dell’ingiusta allocazione unilaterale del rischio a carico del risparmiatore. E soprattutto la decisione si segnala per la particolare incisività del rimedio, meritoriamente utilizzato dalla Corte d’appello per reprimere quelle forme di abuso particolarmente odiose in danno dei risparmiatori, che non sono infrequenti nei mercati finanziari, per l’asimmetria informativa tra banche e risparmiatori, foriera di opacità e intrasparenza delle condizioni contrattali, inconsapevolmente da questi ultimi accettate».
n.a.
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