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Al Taormina Film Festival la magistrale lezione di Arnaud Desplechin: cinema, risate e lacrime

«Questa lezione di cinema sarà politicamente scorretta!». Così il direttore artistico del Taormina Film Festival Marco Müller ha introdotto la lezione di cinema di Arnaud Desplechin, ospite della manifestazione, in attesa di proporre oggi al Palacongressi, per la sezione “Focus Mediterraneo”, «Filmlovers!», versione inglese di «Spectateurs», suo ultimo film già presentato a Cannes.
Un cinefilo non ortodosso, la cui filmografia tra realtà e immaginazione contiene interessanti rimandi a Truffaut, Hitchcock, Bergman. «L’unico autore capace di camminare sulla corda tesa tra commedia e melodramma – ha sottolineato Müller – senza mai cadere dalla parte del melodramma, spingendo la commedia fino a sfiorare il tragico, ma riuscendo sempre a riportarla verso la commedia. Chi meglio di lui poteva esplorare i modi diversi di fare commedia?». Ed è proprio eludendo i classici convenevoli tra ospite e moderatore che Desplechin fa una premessa: «Quando Marco mi ha telefonato gli ho detto che aveva scelto la persona sbagliata, perché da spettatore cinematografico amo piangere. Ma per lui e per la mia compagna, che mi trova divertente, ho accettato la sfida, sebbene il mio cinema sia fortemente melodrammatico».
Eppure, nella sua lezione, quell’amore per il cinema che nel suo «Spectateurs» emerge potentemente c’era tutto, assieme ad una profonda capacità di analisi e narrazione critica di tante pietre miliari della settima arte. Si parte dal ricordo di una masterclass vissuta da spettatore, col grande Orson Welles, durante gli anni di formazione presso la prestigiosa scuola di cinema parigina La Fémis. «Quando Welles chiese chi di noi volesse fare cinema, io e un amico che mi era accanto fummo gli unici a non alzare la mano. Ma quando chiese chi volesse fare spettacolo la mano la alzammo solo noi, dimostrando di non considerare lo spettacolo qualcosa di cui vergognarsi». Un aneddoto che è già di per sé un insegnamento sul giusto atteggiamento di chi si accosta alla complessità dell’arte dello spettacolo.

Poi Desplechin comincia a spaziare fra generi ed epoche, pietre miliari e titoli recenti, con proiezioni di scene cult di opere che appartengono alla storia del cinema d’autore. Inizio in grande stile con le icone Stan Laurel e Oliver Hardy e il film muto del 1927, «Putting Pants on Philip», con la gag a doppio senso del kilt scozzese di Hardy, passando per un cult assoluto come «Ninotchka» di Lubitsch e la scena iconica della risata di Greta Garbo. «Lubitsch ha spinto la commedia al massimo dell’eleganza e dell’ambiguità – ha detto – . Era la prima volta che la Garbo rideva e a Hollywood ci si è sempre chiesti se una donna potesse essere bella e divertente allo stesso tempo. Mettere insieme queste due peculiarità è stato qualcosa di completamente nuovo».
Dramma e ironia nella scena del ballo chassidico tipicamente ebreo de «Le folli avventure di Rabbi Jacob» di Gérard Oury – con Louis De Funes nei panni di un imprenditore antisemita costretto a fingersi giudeo – e nel dialogo con gli uccelli di Totò nel capolavoro pasoliniano «Uccellacci e Uccellini». «In quel film trovo molto divertente la contrapposizione tra alto e basso, divino e terreno – ha sottolineato Desplechin – . Questa scena è di estrema poesia e divertimento, mi turba e sconvolge. Ed è molto difficile riuscire a far ridere coi sottotitoli del linguaggio dei passeri».
Sublime combinazione di lacrime e risate in un altro titolo italiano, «Palombella rossa» di Nanni Moretti, nella scena del finale della partita di pallanuoto giocata lungo l’arco del film. Trivialità e spavento nel racconto osceno fuori campo di Joanna Gleason, sorella di Woody Allen nel suo «Crimini e misfatti».
Nell’excursus tra i più riusciti titoli del grande schermo, anche una classica commedia hollywoodiana contemporanea, «Funny People» di Judd Apatow, con Adam Sandler. Ultimo frame della lezione di cinema di Desplechin, la scena tragicomica degli psichiatri in «I re e la regina» dello stesso regista, che ha chiuso con un semplice «Qui non ho nulla da commentare». Davvero poco formale, ma politicamente corretto.

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