Conoscenti di vecchia data Richard Dreyfuss ed Alessandro Haber, nonostante l'oceano di mezzo. Si ritrovano nella penultima masterclass del Film Fest , con ricordi in comune. Entrambi grandi mattatori, nella mattinata di ieri hanno affascinato il pubblico del Palacongressi con un botta e risposta vivace e accattivante, moderato dal co-direttore artistico del festival Gianvito Casadonte.
Profondamente diversi nei rispettivi percorsi professionali - uno Premio Oscar amato da Lucas e Spielberg; l'altro lanciato da Pupi Avati in “Regalo di Natale” - partono entrambi da lontano per avviare il dibattito. Haber, in omaggio all'ospite statunitense, rievoca una simpatica gaffe di quarant'anni fa: «Durante un soggiorno in America, fermai Richard Dreyfuss mentre faceva jogging a Central Park, e mi complimentai con lui l'interpretazione di un film, “L'ultimo spettacolo”, cui non aveva preso parte. Mi ha perdonato solo l'anno scorso al Magna Graecia Film Festival, in Calabria...».
Dreyfuss torna col ricordo all'Oscar vinto con “Goodbye amore mio” nel 1978, un riconoscimento, a suo avviso, prematuro: «Dietro quel premio non c'era niente, a parte la mia performance, perché mancavo di esperienza. L'Oscar deve essere supportato dalle esperienze di vita che metti nel ruolo».
Il confronto tra i due attori procede in maniera avvincente, mai banale, comunque ironica, evitando i toni da classica lezione magistrale. «A volte l'Oscar me lo sono immaginato davanti allo specchio - ha detto Haber - ma ho vinto Nastri d'argento e David di Donatello, che messi insieme fanno un Oscar».
Come in ogni masterclass che si rispetti, anche con i due ospiti di ieri si è parlato del mestiere d'artista. Entrambi convinti sostenitori della necessità di cimentarsi in ruoli tanto positivi quanto negativi, Dreyfuss prende spunto dai lavori con i quali è presente a Taormina (“Astronaut” e “Daughter of the wolf”): «Il primo è un film a lieto fine, l'altro mi ha dato occasione di interpretare un serial killer che si diverte a vedere il sangue e uccidere bambini. Un attore deve trovare questi personaggi dentro di sé. La mia passione è scoprire cosa c'è in me e credo che in ciascuno di noi ci sia un po' Hitler e un po' Gesù».
Haber, di contro, individua il talento nella capacità di essere verosimile: «Noi attori siamo pittori, e ogni volta dobbiamo usare un colore diverso, anche se lontano da noi. È questa la capacità d'interpretazione: fare tante cose con verità; anche estreme, come l'ambiguo avvocato che ho interpretato ne “L'ultimo capodanno” di Marco Risi».
Ma esistono anche i criteri di scelta per sentire un ruolo come proprio. Per Dreyfuss l'ambizione è la stella polare: «Rifiuto ogni film che non rientra in quello che è il mio obiettivo fin da bambino: diventare il più grande attore del mondo (sorride). Per farlo volevo uccidere Pacino e De Niro…». Anche per Haber la tensione a superare i limiti è la molla di tutto: «Quando da giovane vedevo un attore più grande pensavo che raggiunta la sua età avrei potuto fare quella parte meglio di lui. Se ti poni dei limiti non puoi fare questo mestiere, la passione deve guidarti sempre più in alto».
Non poteva mancare, nei racconti di Dreyfuss, un riferimento ai grandi registi Spielberg e Lucas, alle loro peculiarità: «L'uno pronto a cimentarsi in diversi generi, l'altro profondamente avverso alla regia: George crede nel video, Steven nei film. Concordo con lui perché il video è realistico, mentre il cinema è lo stato del sogno, un viaggio molto più lungo e più bello».
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