La mafia di Barcellona: dopo Di Salvo, un altro colpo di scena. Mastroeni: «Fui costretto a sotterrare un cadavere»
«Ho capito che avevano ammazzato qualcuno e io stavo coprendo un cadavere». Oppure: «Quelli erano tempi brutti. non potevo dire no a certe richieste, perché rischiavo di essere ucciso io». E ancora: «Non ho denunziato di avere sotterrato, quella notte, un cadavere, perché mi avrebbero ucciso». Dopo la clamorosa dissociazione del boss barcellonese Salvatore “Sem” Di Salvo l’ultima inchiesta sulla Cosa nostra barcellonese della Procura di Messina retta da Antonio D’Amato riserva un’altra clamorosa novità. Seguendo quello che inquirenti e investigatori hanno da sempre considerato il suo “capo” a Barcellona, anche l’imprenditore originario di Merì Carmelo Mastroeni, indagato in questa inchiesta e accusato dai collaboratori di giustizia di aver partecipato alla “lupara bianca” che portò alla morte di Giuseppe Italiano nel febbraio del 1993 a Barcellona, ha chiesto nei giorni scorsi di essere ascoltato dai magistrato della Distrettuale antimafia. E lo ha fatto davanti al procuratore aggiunto di Messina Vito Di Giorgio e al sostituto della Dda Fabrizio Monaco insieme ad alcuni investigatori dei carabinieri del Ros. Con lui c’erano anche i suoi difensori, gli avvocati Giuseppe Lo Presti e Filippo Barbera. E le sue dichiarazioni non sono meno clamorose di quelle rilasciate qualche mese fa da Di Salvo. In pratica Mastroeni spiega nel verbale che fu costretto proprio da Di Salvo a partecipare a quella lupara bianca, e racconta dei suoi rapporti con gli esponenti di Cosa nostra barcellonese e con l’ex capo dei Mazzarroti oggi pentito Carmelo Bisognano, respingendo le accuse che gli ha rivolto il collaboratore di giustizia. Di fatto, anche se il termine non viene mai adoperato nelle pagine del verbale di dichiarazioni, si tratta di una dissociazione da Cosa nostra barcellonese, e di una “autolettura” di tutti i fatti in cui è stato coinvolto come vittima della “famiglia” capeggiata prima da Gullotti e poi da Di Salvo. Ma partiamo dall’inizio. Mastroeni, a cavallo degli anni e 90 e 2000 imprenditore del movimento terra, ha spiegato ai pm che per circa dieci anni ha prelevato abusivamente la sabbia dal torrente Patrì e la trasportava poi nei cantieri con i suoi camion. Quello stesso torrente dove il boss Carmelo D’Amico, da sempre vicino a Di Salvo, con i suoi fratelli scaricava il pastazzo, «nelle buche fatte per prelevare la sabbia e che io, poi ricoprivo». Poi Mastroeni racconta che Di Salvo molti anni fa gli chiese di lavorare con lui perché aveva problemi con la giustizia. Un giorno gli disse di aspettarlo nel torrente Patrì e di non andare via. E quel giorno del 1993 Cosa nostra barcellonese aveva deciso di uccidere il povero Giuseppe Italiano. Pensava che D’Amico avesse dovuto scaricare il pastazzo in quella buca e non sapeva che invece, si sarebbe trattato di ben altro. Era pomeriggio inoltrato e lui mentre aspettava ne approfittò per fare dei lavori alla pala meccanica, intorno alle 18 sentì il rumore di un’auto che arrivava sul posto, poi dopo un po’ il rumore di un’altra vettura. Le auto si fermarono a circa cento metri da dove si trovava lui, non vedeva chi ci fosse a bordo. Dopo circa dieci minuti «ho sentito due o tre spari, mi sono spaventato e poco dopo è arrivato Di Salvo Salvatore. Gli ho chiesto se avevano ammazzato qualcuno e lui mi ha indicato di muovermi subito con la pala meccanica... Di Salvo mi ha indicato dov’era il fosso da coprire ed io l’ho coperto... ho capito che avevano ammazzato qualcuno ed io stavo coprendo un cadavere». Non ha mai più saputo chi ci fosse in quella buca, non ha mai più voluto riprendere l’argomento con Di Salvo, «... ho appreso chi fosse la vittima dal provvedimento di cattura». Le dichiarazioni di Mastroeni non sono però l’unica novità di questa inchiesta che più va avanti e più riserva clamorose sorprese. Se si guarda l’atto ufficiale di fissazione dell’udienza preliminare siglato dalla gup Arianna Raffa, non si può non notare che accanto al primo difensore di Salvatore “Sem” Di Salvo, ovvero l’avvocato Tino Celi, compare adesso un altro nome come co-difensore. Che è quello «dell’avvocato Maurizio Sebastiano Marchetta del foro di Milano». Ora, a meno di improbabili omonimie, si tratta dell’architetto ex vice presidente del consiglio comunale di Barcellona, in quota An, nonché insieme ai familiari gestore dell’impresa Cogemar, che per un periodo fu un teste di giustizia e “dichiarante”. E che evidentemente ha conseguito una laurea in legge e adesso esercita la professione di avvocato. Marchetta in passato raccontò tra le altre cose che era stato costretto a subire l’incendio di mezzi meccanici e alcune richieste estorsive. Dopo le sue dichiarazioni la Dda di Messina formalizzò le accuse per i boss Bisognano e D’Amico e per Pietro Nicola Mazzagatti. Si trattò dell’operazione “Sistema”, che poi vide la condanna di Mazzagatti e l’assoluzione di Bisognano e D’Amico a Reggio Calabria, dopo un annullamento della Cassazione. Marchetta, tra l’altro, ha subito un processo per concorso esterno alla mafia barcellonese, deciso in primo grado dalla gup Monica Marino nel 2018. Che si concluse per la giudice con una duplice valutazione. Ovvero che fino al 2003 c’erano una serie di prove evidenti, anche se in qualche caso contraddittorie, che il concorso esterno alla mafia barcellonese ci fosse stato, e la prova principale era il suo rapporto privilegiato con Salvatore “Sem” Di Salvo. Ma al 2018 ormai era tutto prescritto dal tempo. Per il dopo-2003 invece la gup Marino lo assolse da ogni accusa.