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Negramaro, un amore che torna...

Negramaro, un amore che torna...

Messina

Doveva arrivare la “rivoluzione” e invece è arrivata la crisi. Poi, altrettanto inaspettatamente, “Amore che torni”. Perché si sa, certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Appunto. E i Negramaro ritornano. Sempre. Il 24 giugno a Lignano Sabbiadoro il via al tour che l’8 luglio toccherà anche Messina, qualche giorno dopo Vasco Rossi e nella scia di quanto accaduto negli ultimi anni con lo stadio San Filippo teatro per i grandi big della musica italiana (Ligabue, Jovanotti, Pooh, Tiziano Ferro).

Un ritorno speciale (i Negramaro a Messina oltre dieci anni fa furono protagonisti di un bellissimo concerto all’arena di Villa Dante) soprattutto per Giuliano Sangiorgi, che la Sicilia la conosce e la ama. Il padre Gianfranco era di Caltanissetta. Ma riavvolgiamo il nastro.

“Amore che torni” è un nuovo inizio o un lavoro di resilienza?

«Senza una crisi vera e destabilizzante come quella che ci ha sorpresi un anno fa, forse non ci sarebbe oggi un disco come questo. “Amore che torni” è sicuramente un nuovo e “antico” inizio: profondo come i primi tempi, entusiasta come quelli che verranno. Non avevamo mai attraversato una crisi tanto lunga: due mesi senza parlarci, senza vederci, senza scriverci. È la nostra stessa storia che ci ha chiesto di riflettere e ripartire in maniera più consapevole. Correvamo dal debutto e soprattutto dal grande successo del 2005. E andava tutto bene. Ma prima che cominciasse ad andare male è stato fisiologico fermarsi».

E tu te ne sei andato in America, a New York.

«Andarci mi ha permesso di perdermi e ritrovarmi. Ho vissuto a New York due mesi in cui ho provato una grande solitudine. Una solitudine di cui ho avuto paura e che mi ha dato finalmente modo di capire fino in fondo cosa ha sentito mia madre con la scomparsa di mio padre. Con questa crisi abbiamo voluto crescere per capirci meglio, per tornare a noi stessi sia individualmente che come gruppi».

Come avete ritrovato la sintonia sul piano produttivo? E cosa dicono oggi i Negramaro con questo album?

«Non c’è un disco dei Negramaro che non sia stato concepito con un’assoluta sintonia. Non c’è canzone che non si “muova” senza che ognuno di noi lo voglia veramente. In questo ritorno abbiamo ritrovato forse l’incoscienza dei primi tempi e la voglia di guardare al futuro come a un capitolo nuovo, immacolato da scrivere ex novo, con un altro riflesso di noi sulla musica e sulle parole che saremo».

Durante la vostra separazione qualcuno ha pensato a un Sangiorgi capace di ballare da solo. Ti è mai interessato?

«Mai. A Los Angeles, poco tempo fa, qualcuno mi ha detto: “Si sente che tu sei un cantautore travestito da band”. Io gli ho risposto che quando a otto anni facevo finta di suonare con una racchetta Rattle and Hum e immaginavo di essere Bono, sul muro disegnavo le sagome degli altri U2. Quindi no, non mi interessa fare il solista. Ci possono essere dei side project. Ora, per esempio, mi piacerebbe fare un percorso di world music, senza tempo. Ma per me la musica è condivisione. Le canzoni le scrivo io ma poi le arrangiamo e le cambiamo tutti insieme. Da solo non avrei realizzato quello che abbiamo fatto come band. Io sono un sesto».

Tutto in due tracce: “La prima volta” e “L’ultima volta”. Cos’è un gioco? O cos’altro?

«La prima volta è un tempo definito, collocabile con certezza in un momento preciso, determinato. L’ultima volta, invece, è un periodo indefinito, una promessa non mantenuta, una preghiera mai soddisfatta, un giuramento e la sua consapevole disfatta. Non saprai mai quando sarai di fronte ad un’ultima volta. Mi affascina pensarle insieme, la prima e l’ultima volta, e in questo disco ci sono speranze nuove e antichissime consapevolezze».

Dal ragazzo che «vedeva il mondo solo con gli occhi del rock e pensava che la musica fosse solo una chitarra suonata a gran volume». Da quel ragazzo che «amava i Doors e la Beat Generation, suonava Jimi Hendrix e sapeva “Made in Japan” dei Deep Purple a memoria» alle influenze di De Andrè. Dal titolo stesso (come estensione di «amore che vieni, amore che vai») alla voce di tua nipote Maria Sole che racconta il futuro come l’anziana di “Le Nuvole” cantava i sogni. Potenza della musica?

«Sconvolgente, direi. La musica mi ha travolto come un fiume in piena e mi ha lasciato in “riva” ai bordi del suo letto per ammirarne le mille onde che lo gonfiano ad ogni suono».

Il disco canta composto e complesso, senza manierismi. Stavolta ti sei spinto al di qua della tua potenza vocale, “Fino all’imbrunire” è come se parlasse urbi et orbi...

«Mi suona come un complimento e io me lo prendo, orgoglioso e grato, e lo trasformo in un sorriso. “Fino all’imbrunire” credo sia stata una delle più felici scelte nella nostra carriera: volevamo ritornare così, come fa uno stormo di uccelli, con un rumore assordante di ali leggere in volo. E ci sono le emozioni. L’emozione ha facce diverse. Le indossiamo per come meglio sappiamo esprimerle».

Come si tradurrà l’album nel tour estivo?

«Il nuovo album ha scelto per noi la scaletta del live. È come se ci avesse indicato una strada da seguire. E così è stato: ci siamo lasciati trasportare fino in fondo, travolgendo ogni nota attorno. È davvero emozionante giocare con dei classici del nostro repertorio, rivestendoli di fresco e di nuovo».

Dove sta andando la musica italiana? Cosa ti piace dei nuovi?

«Credo che la musica italiana stia costruendo un nuovo codice, tutto suo, nel panorama internazionale. Le generazioni di oggi stanno attingendo nuova linfa da grandi cantautori del nostro passato come Rino Gaetano, Lucio Dalla e tantissimi altri della scena anni 80. C’è un nuovo fermento tutto italiano e questo non può che farmi piacere. Mi piace molto la semplicità di Coez. Arriva dritto, dritto in pancia, come la sua scuola di danza».

“Non è un paese per giovani”. Hai firmato la colonna sonora del film di Veronesi. Cos’è l’Italia?

«Un paese eternamente “in bilico tra tutti i suoi vorrei…”. Caduta di stile in una spudorata autocitazione, ma ci sta tutta, chiedo perdono!»

Nella tua stanza da bambino, sulla mensola c’erano i tuoi robot: Mazinga, Goldrake, Actarus. Eroi nei sogni di bambino. Oggi chi sono i tuoi eroi?

«I genitori, tutti i genitori del mondo. Chissà se ne saremo mai capaci…»

Tuo padre, dopo aver ascoltato “Smoke on the Water” registrata da te su una cassetta con una chitarra con elastici al posto delle corde, ti regalò la tua prima chitarra. È sliding doors della tua vita? Tuo padre è la tua idea di padre?

«Se non fosse tornato indietro verso il negozio di strumenti musicali mentre tornava a casa dal lavoro, se non avesse invertito quel senso di marcia, oggi non credo sarei dall’atra parte del vostro microfono a parlare di musica e vita».

Tuo padre Gianfranco è nato a Caltanissetta, la Sicilia ce l’hai dentro e lo hai detto più volte. Hai scritto “Ti è mai successo” pensando alle tue traversate dello Stretto di Messina. Ci racconti la tua storia con la Sicilia.

«La Sicilia era il viaggio più bello del mondo. Contavo i mesi, i giorni, le ore prima di ripartire. Non vedevo l’ora di mettermi in macchina con la mia famiglia e insieme raggiungere il “posto” in cui mio padre era cresciuto. Mi ha insegnato ad amarla tutta, in ogni sua singola contraddizione e in tutta la sua splendida unicità e bellezza. Non l’ho vissuta da turista, ma nelle parole di mio padre l’ho fatta mia. E oggi sono “cittadino nisseno” in suo onore».

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