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Modica nel segno di Zeman

Modica nel segno di Zeman

Il Licata una favola vissuta da protagonista, poi Messina e i gol di Schillaci, quindi il percorso da allenatore. Sui passaggi di vita più importanti di Giacomo Modica c’è soprattutto la firma di Zdenek Zeman, l’uomo che ha inciso maggiormente sulla carriera del 53enne mazarese che da un mese ha rimesso sul giusto binario il Messina. L’attuale trainer giallorosso, tornato in riva allo Stretto 27 anni dopo l’esperienza da calciatore, si gode, senza esaltarsi, il buon momento della sua squadra reduce da quattro risultati utili di fila. Eppure la prima volta a Messina fu amarissima. Un pacchetto di sigarette costò un accidente all’allora centrocampista: «Era il 1988 ed ero a Contesse con Angelo Lombardo, l’allora vice di Zeman. In un minuto mi ritrovai senza auto! Il tempo di entrare e uscire da un tabacchino e la mia Volvo non c’era più». Oggi Modica è un tecnico cresciuto a pane e Zeman con Messina nel destino: «Sapevo che un giorno sarei tornato...».

Chi è Zeman per lei?

«Un’icona del calcio, un secondo padre. Una linea guida per la mia crescita, prima umana e poi professionale. Mi ha visto crescere: avevo 16 anni e fu lui a volermi al Palermo, nella sua Primavera. Giocavo nel Trapani, vide una partita della Rappresentativa regionale e mi portò in rosanero. In quella squadra c’erano Romano, La Rosa, Miranda, Campanella, Maurizio Schillaci, il nucleo che poi formò il Licata dei miracoli. Un grande allenatore, una persona che cambiò il calcio di quegli anni».

Un innovatore con i suoi metodi di lavoro e il suo calcio d’attacco.

«Lui e Arrigo Sacchi segnarono un’epoca negli anni Ottanta e in quelli successivi. Il nuovo calcio lo firmarono loro. Zeman fece una lunga gavetta e arrivò a essere uno degli allenatori più apprezzati d’Europa. Con lui ho tutt’oggi un rapporto eccezionale. Un’amicizia quasi quarantennale. D’estate facciamo le vacanze insieme a Mazara, ho lavorato tanti anni al suo fianco, sarei dovuto andare anche in estate con lui a Pescara, ma aspettavo un’altra situazione. Mi ha insegnato soprattutto la cultura sportiva. Di lui ho sempre apprezzato in primis le qualità umane. Un insegnante di vita, una persona piacevole anche al di fuori del campo. Chi lo conosce sa quant’è ironico e sempre con la battuta pronta».

Un aneddoto su tutti?

«Una trasferta in nave, con la Primavera del Palermo. Mare forza 8, tutti a vomitare tranne lui che, con la sigaretta accesa e le carte sul tavolo, ci dice col suo tono: “Ma allora soffrite il mare?”. Unico, sa mettere il buon umore anche senza parlare. Con lui si sorride tranne quando si è sul campo a lavorare. Lì esige il massimo impegno».

Fu lui, anni dopo, a volerti a Messina nell’estate del 1988.

«Un giorno mi chiamò: “Giacomino, prepara valigia. Andiamo a Messina”. Non esitai un attimo. Aveva grande stima di me e questo mi aiutava. Lavorare con lui voleva dire giocare un bel calcio e non avere paura di nessuno. Chiedere al Milan in un 1-1 di Coppa. Messina fu una gran bella avventura, anche se lui dopo il primo anno preferì andare via. Era diverso caratterialmente dal presidente Massimino. E forse questo ha inciso sulla sua decisione di lasciare».

Messina di quell’anno in due parole: “Celeste” e Schillaci.

«In casa non si passava. Ne vincemmo 14, gol a grappoli. Fuori casa, invece, ci smarrivamo. E poi Totò: io lo conoscevo dalle rappresentative giovanili. Siamo entrambi del ’64, sapevo che quel talento con il gol nel sangue sarebbe arrivato in alto. Certo, non al punto che due anni dopo sarebbe stato l’eroe dei Mondiali. Eppure, lo Schillaci forte era un altro....».

Maurizio ha buttato la carriera al vento?

«Aveva un talento impressionante. Ragazzo buono, dolcissimo. Con qualità tecniche da Nazionale. Si mise in evidenza nel Licata, fu ceduto alla Lazio nell’intervallo di una partita a Catanzaro. Ebbe l’opportunità di arrivare nel grande calcio, purtroppo qualche infortunio di troppo e la sua fragilità caratteriale non gli permisero di affermarsi dove avrebbe meritato».

Il secondo anno a Messina molto difficile.

«C’era Scorsa, battemmo il Toro delle stelle e il Cesena di Lippi in Coppa, l’inizio di campionato fu esaltante. Ma alla quinta avevamo già finito la benzina. Riuscimmo a salvarci con i gol di Igor Protti, persona eccezionale e bomber implacabile, e la testa di Paolino Doni nello spareggio di Pescara».

Turi Massimino, che ricordo ha?

«Simpaticissimo, un vincente. Non mi avrebbe mai ceduto: “Sono orgoglioso che sei il nostro capitano”, mi diceva. Ma quando arrivò un’importante offerta della Lazio, nell’inverno del 1988, dovette dirmelo: «Se vuoi andare, vai. Ma se rimani sono felice, a costo di rinunciare a tanti soldi”. E io restai».

Da Schillaci a Del Piero. Siamo nel 1992 e a Padova in prima squadra si affaccia un talentuoso attaccante...

«Ricordo la sua timidezza che smarriva quando giocava. Alex aveva doti al di fuori del comune, le responsabilità non lo hanno mai condizionato. Tant’é che dopo un anno di B, a Padova, andò alla Juve. ma in quel Padova c’era un giocatore più forte, De Franceschi. La sfortuna si accanì con lui, nel calcio ci vuole anche la buona sorte per sfondare».

Modica come diventa allenatore?

«Quasi casualmente. Avevo finito a Catania, con l’Atletico, con l’intenzione di intraprendere la carriera di ds. Ma non avevo messo in conto la chiamata di Zeman. “Verresti a farmi da vice al Fenerbahce?”. Potevo mai rifiutare quella proposta che si rivelò il mio trampolino?».

Cominciare in Turchia, mica una passeggiata...

«Calcio passionale, il derby Galatasaray-Fenerbahce è qualcosa che non si può descrivere. Una “guerra” sportiva. Un anno formativo. Ricordo una battuta di Zdenek: “Giacomino, fumiamo più dei turchi...”».

Napoli, Salerno, Avellino. Gradoni, bel gioco e quel giorno al “Partenio”...

«I tanti anni al fianco del boemo mi hanno permesso di assimilare il modulo che non abbandonerò mai, il 4-3-3. Movimenti, scalate, fuorigioco, i metodi di lavoro, i gradoni che faccio fare anche ai miei ragazzi a Messina per la forza muscolare, la bellezza di un gioco offensivo. A Napoli fummo sfortunati, ad Avellino, invece, “battezzammo” il Messina di Mutti. Che partita: i giallorossi sbagliarono due rigori e poi passarono con un “gollonzo” al 90’».

Ha allenato Totti a Roma.

«Il più grande di tutti. Mi diceva: “Ahò, dì a tu padre, riferendosi a Zeman, che oggi non voglio correre... E poi era il primo che arrivava a Trigoria e l’ultimo che usciva dal campo!».

Dove può arrivare l’Acr?

«Playoff, ci credo. Peccato l’inizio. In C? Il Troina può farcela, ha qualità ed entusiasmo».

Allegato:

La carriera: cresciuto nel Palermo

Due stagioni in B con i giallorossi

Giacomo Modica, 53 anni, mazarese, ex centrocampista, è l’allenatore del Messina da un mese e mezzo. Ha sostituito Antonio Venuto. Da calciatore ha indossato la maglia giallorossa in B dal 1988 al ’90 (72 gare, 2 gol). Ha cominciato nel Palermo, poi Turris, Licata (storica promozione in B), Messina, ancora Palermo, Acireale, Ancona, Ternana (promosso in C1) e Atletico Catania con il quale ha chiuso da calciatore nel ’99. Da allenatore ha iniziato come vice di Zeman in Turchia, al Fenerbahce, e poi ha seguito il boemo al Napoli, alla Salernitana, all’Avellino, alla Roma e al Cagliari. Da primo allenatore ha iniziato a Cosenza in D (2004/05, 8° posto). Quindi tanta Serie C tra Melfi, Celano (portato ai playoff), Lecco (retrocessione in D ai playout), L’Aquila, Mazara (Eccellenza) e, storia dei giorni nostri, il Messina in D.

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