«Sono sempre stato un gran chiacchierone. Non a caso a me in Rai concedevano il “minuto lungo”». Il prossimo giugno Nuccio Fava, già direttore del TG1 e del TG3, avrà raggiunto il traguardo dei 50 anni di carriera. Nato a Cosenza ma messinese d’adozione, ha ricevuto nell’Aula Magna dell’Università di Messina il premio “FUCI Messina - Giorgio La Pira” che l’anno scorso andò al gesuita messinese P. Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica. E proprio dalla sua esperienza in Fuci parte il nostro colloquio, immersi nel verde della campagna di Curcuraci.
«Se penso alla Fuci - ci dice - mi viene in mente l’amicizia cordiale e il naturale rifuggire dalle banalità e, in un certo senso, dalle mode. Un modo di essere giovani, consapevoli della strada verso la maturità e le responsabilità da assumere nel campo professionale, senza mai chiudersi in una visione egoistica ma con la prospettiva di mettere, nel futuro, la propria competenza a disposizione delle esigenze della comunità. La FUCI mi ha insegnato a pormi il problema dell’altro e il rispetto dell’interlocutore, chiunque egli fosse».
Come vede Messina?
«La trovo sempre bella ma, nei suoi difetti, sempre uguale a se stessa. Non trovo grandi miglioramenti e penso ciò sia imputabile a chi l’amministra tanto quanto a chi ci vive. Mi dibatto perciò tra la gioia che provo al solo guardare la Madonnina e l’impatto con la città che è molto difficoltoso».
Che ricordi ha della città della sua giovinezza, quella che usciva dalla guerra?
«La mia sensazione era quella di una Messina come di un “cantiere”, sia in senso pratico che in senso intellettuale. Ricordo gli operai che posavano i grandi blocchi di basolato lavico, i mercatini vivi, una città in pieno fermento».
Si può dire che la sua attività giornalistica sia nata tra i banchi di scuola al classico Maurolico?
«Fui tra i fondatori di un giornale autogestito, dal titolo “Il Maurolico”. Tuttavia, a quel tempo, non avrei immaginato che avrei fatto del giornalismo la mia professione. Quello che mi muoveva era il bisogno di creare relazioni, di fare comunità. Vale lo stesso per la mia esperienza con la pallacanestro. Inizialmente giocavo a pallone nel cortile del Domenico Savio, poi spuntò fuori un canestro e mi innamorai di questo sport, così nuovo per Messina».
E poi, l’arrivo alla Rai...
«L’approdo alla Rai fu quasi casuale. Mentre ero impegnato a Roma con l’Unuri (l’organismo rappresentativo degli studenti universitari italiani ndr), nel 1966, mi trovai alle prese con la tragedia dello studente Paolo Rossi, morto sulla scalinata della facoltà di Lettere alla Sapienza a seguito dei tafferugli causati dai neofascisti. In quell’occasione, fui intervistato da Sergio Zavoli che stava realizzando un servizio per TV7. Venni così a sapere della possibilità di entrare in Rai attraverso una selezione. Insieme a me entrarono giornalisti come Paolo Frajese, Bruno Pizzul e Bruno Vespa.»
Si ricorda il suo primo servizio?
«Anche questo fu un caso. Era l’estate del ’68 e nella notte tra il 20 e il 21 agosto i carri armati sovietici entrarono nella capitale cecoslovacca mettendo fine alla Primavera di Praga. Il giornalista Mario Pastore che avrebbe dovuto riferire sulle reazioni in Italia di quei fatti era in vacanza e non riuscì a tornare a Roma in tempo. Io avevo preparato dei fogli con degli appunti da consegnargli. Alla fine mi fu detto di andare in onda per qualche minuto. Il direttore Fabiano Fabiani ci aveva raccomandato di dire Cecoslovàcchia e non Cecoslovacchìa come spesso era d’uso. Nei secondi prima che la lucetta rossa si accendesse, non facevo che ripetermi “Cecoslovàcchia, Cecoslovàcchia...”. Si accese la lampadina e dissi: “Ma ora sui fatti di Cecoslovacchìa...”».
Fu sostituito alla direzione del Tg1 dopo la celebre inchiesta di Ennio Remondino su Cia, P2 ed eversione. Quindi non ci sono solo bei ricordi?
«Non ho avuto sempre soddisfazioni, anzi talvolta sono stato ostracizzato. I ricordi più belli sono delle tante trasmissioni condotte o dei viaggi fatti. Con il messinese Luciano Scaffa, allora dirigente Rai, inventammo, ad esempio, una trasmissione per il Venerdì Santo intitolata “Domande su Gesù”. Ricordo poi soprattutto i viaggi come vaticanista in Messico, in Nigeria e a Cuba dove Fidel Castro, vestito in abiti civili e non militari, mi sembrò un testimone di nozze accanto a Gabriel García Márquez che gli spiegava il Vangelo».
L’informazione oggi è in salute?
«Attraversa un periodo critico. La velocità toglie spazio alla riflessione, a un approfondimento critico, che, a priori, è un’esigenza di chi riceve e un requisito per chi trasmette. Non vedo, se non raramente, un’informazione problematica che fa lo sforzo di coinvolgere l’intelligenza del fruitore, ma ne sfrutta solo l’emotività».
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