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Com’era bella Messina nei favolosi ’50

Com’era bella Messina nei favolosi ’50

I ragazzi del dopoguerra crebbero in fretta, avendo dovuto affrontare tante tribolazioni. Nello scoppiettio dei passi avanti con la rimozione delle macerie che a cumuli fiancheggiavano le strade, si cominciarono ad apprezzare le “sorprese” portate dai liberatori. Fecero capolino le prime sigarette estere specie Camel, Marlboro, Lucky Strike, Pall Mall i cui nomi erano storpiati dai “bagarini” che le spacciavano d’intrallazzo davanti ai bar. La marche erano pubblicizzate pure in parecchi film d’oltreoceano, che invasero le nostre sale cinematografiche e a turno, i vari pacchetti erano inseriti tra le preferite di Bogart, Sinatra, Dean, Lucille Ball, oppure dal nostrano Roberto Rossellini che ne era accanito fumatore. Il fenomeno dilagò pure nelle pellicole made in Italy, per cui nel 1962 Dino Risi nel film “Il sorpasso” introdusse le Chesterfield. La reclame coinvolse diversi generi di consumo, whisky compreso. Tra i primi in circolazione ci fu il Johnnie Walker, nome balbettato da sedicenti viveur, veterani di brindisi con i bicchieri colmi d’acqua. Dalla Spagna giunse il Fundador, un cognac a buon mercato, mentre la Vodka scaldava la gola ai fautori della guerra fredda!

A conflitto concluso, il suggestivo fenomeno dell’urbanesimo deflagrò in provincia e fece prendere d’assalto le città. Frotte di paesani abbandonarono precedenti realtà e come schegge schizzate da granata compressa dal regime, si conficcarono tra partiti politici e pubbliche amministrazioni.

Il susseguirsi di negozi illuminati a giorno costituivano fiumane di luci che dal viale San Martino, corso Garibaldi e via Tommaso Cannizzaro confluivano verso piazza Cairoli. Il salotto cittadino, ombreggiato da 58 vecchi alberi era punto nevralgico di fermenti e riferimento per ogni tipo di appuntamento, intreccio politico e opinione, rivelatesi d’assoluto ascolto nei Palazzi del potere.

Uno dei luoghi di mondana frequentazione era il Drago Verde, gestito dal geometra Cesare Venuti, conosciuto per la sua florida attività di rabdomante. Il night situato negli scantinati attigui all’Istituto Dante Alighieri vantava oltre vaporose entreneuse, vantate vedette di chiamata parigina e provenienti come minimo dal Mouline Rouge, annunciava lo speaker preceduto dal rullo del tamburo.

Influì pure il vissuto goliardico, oltre la scoperta di un mondo nuovo insita nei film d’oltreoceano, proibiti al tempo del Fascio e proiettati nelle 50 e più sale cinematografiche sparse per la città. I locali che avevano in programma pellicole di prima visione come il “Trinacria”, che d’estate usufruiva di un giardino costellato di gelsomini, erano presidiati da donna “Pippina a caramillara” che, in base alla mercanzia venduta, giudicava la bontà del film.

Faceva parte delle “botte di vita” la visita alle case di tolleranza che allignavano soprattutto nella zona industriale. Le allegre sale putivano di cipria e di colonia dolciastra, odori che svelavano per un pezzo il luogo di provenienza. Le “signorine” erano gentili, le più sguaiate si trovavano dove la “marchetta” era a buon mercato come “arredi a cinta”, cioè a ridosso della caserma Zuccarello, lungo gli Orti della Maddalena. Il periodo d’oro per le frequentatrici dell’ex cinta muraria, la cui età livellata dallo smodato trucco oscillava dai sedici ai cinquant’anni, capitò durante l’occupazione alleata.

Gli americani euforici e disponibili a fraternizzare associarono quel tratto di strada alla Amburgo delle donnine in vetrina. Una buona scusa, comunque, per condividere rissose bevute di whisky, spanciate di cioccolato e scanzonati sconocchiamenti al ritmo di frenetici boogie woogie. Ancora si pagava con le Amlire (allied military lira), banconota stampata in Usa. Il desiderio di un’energica strigliata veniva appagato ai “Bagni Pugliatti”, ubicati in via Domenico Savio. I camerini s’affittavano corredati da vasca con acqua calda, sapone e spugna per asciugarsi. L’attività era alquanto florida perché non tutti avevano la possibilità di lavarsi in casa. I bordelli, comunque, iniziarono il loro declino nel 1950, quando la senatrice Lina Merlin illustrò all’Università di Messina il suo progetto di smantellamento che trovò definitivo compendio nel 1958.

Furono i migliori anni quelli di metà secolo, perché trascorsi in bellezza tra feste da ballo organizzate nelle stagioni non estive, soprattutto al Grand Hotel che ospitava pure defilé d’alta moda. La vita s’avviava verso la normalità, era il momento dei grandi fermenti, cominciarono i primi congressi politici, vennero consegnati alla fruizione pubblica la stazione ferroviaria, l’ospedale Regina Margherita. Nel dopoguerra fece scalpore la notizia che il ministero dei Lavori pubblici avesse stanziato un miliardo per la costruzione del Policlinico universitario, si ripristinò il cavo telefonico tra Messina e Roma, l’informazione vide l’uscita del “Notiziario di Messina e della Calabria”, pubblicazione bisettimanale sollecitata dagli americani (Amgot), e diretta da Biagio Di Paola. A seguire “L’Eco del Mattino” che ebbe come redattore capo Carmelo Garofalo ed era firmato da Pietro Longo, padre del Peppino autore di: “Messina Rediviva”. Vide la luce il “Don Giovanni” (chi n’nnummìra), così lo reclamizzava lo strillone per le vie della città, infine, nel 1952 la rotativa iniziò a stampare la “Gazzetta del Sud” in Via 24 Maggio.

Erano diventati provati uomini i ragazzi che, appena prima del conflitto mondiale, ancora praticavano per strada giochi infantili d’antica tradizione. I più in uso erano: “A praneta” (l’aquilone) che proprio a Messina ispirò Giovanni Pascoli all’omonima ode. “A sciancatedda” (il campanaro) che saltellando su una gamba costringe a stare dentro le caselle tracciate per terra. L’accanimento, invece, nasceva nelle gare col ”paloggiu”, una rudimentale trottola di legno con in punta un chiodo sul quale volteggia appena lanciato dalla corda che l’avvolge e ne determina l’abbrivio.

In molti provavano una gioia sadica nello spaccare la pigna girante dell’avversario, tirandogli contro la propria. La posta spesso era costituita da una bibita dissetante di pochi soldi che s’udiva “banniare” per le strade: “N’tò ghiacciu, fridda, gilata a gazzusa”. La più ambita era quella con la pallina di vetro che otturava dall’interno la fuoruscita del frizzante contenuto d’acqua, zucchero e sciroppo di anice.

Il turismo costituiva consequenziale interfaccia alle attrazioni di notevole rilievo come in più occasioni ribadiva il comm. Enrico De Natale, presidente dell’Azienda di Soggiorno. Malgrado l’apparente flemma, accentuata da una lenta deambulazione, tra una sigaretta e l’altra, solitamente Turmac, il commenda era disponibile ad incitare ogni programma di svago per incrementare l’afflusso di turisti che s’incontravano a frotte per le vie più pittoresche. Molti preferivano di visitare la città in carrozza, condotta in mezzo al traffico dalla mano sicura del vetturino, detto “gnuri” che, schioccando la frusta, avvertiva il pedone distratto del suo passaggio, gridando: “A vita”.

Capitò per una Festa della Matricola che i carri allegorici fossero preceduti da una carrozza con a bordo don Peppino Famà, mitico bidello dell’Ateneo peloritano, detto “baffu i scupa” per il manubrio di peli che ostentava sul labbro superiore. In quello stesso anno goliardico Pippo Cadili, allora studente in legge ed in seguito parlamentare liberale, s’inventò una sorta di “Disfida di Barletta”. I cavalieri armati di scopa si presentarono in groppa ad asini presi in affitto da ambulanti che giungevano in città specie da Salìce e Castanea per vendere prodotti campagnoli, tra cui la richiesta “minestra sabbaggia”. Il vero divertimento iniziò quando scomparvero i somari e i proprietari estesero le ricerche tra gli uffici del Comune. Del pattuito compenso manco a parlarne!

Nel corso della Rassegna cinematografica di cui divenne gran patron Michele Ballo, coadiuvato dai promotori Arturo Arena, Salvatore Bernava e Giovanni Bellamacina, parecchi attori di scena nei film in proiezione all’Irreramare, erano ritratti dai fotografi d’assalto in giro per la città, oppure in posa detta di “mozzarella”, cioé in carrozza! Recarsi al porto poteva comportare una fugace stretta al cuore per lo sventolio di fazzoletti, agitati per salutare gli emigranti in partenza per terre lontane. Resi inconfondibili dalla rigonfia valigia di cartone e da innumerevoli fagotti, detti “trusce”, soltanto nel 1950 per l’Australia ne imbarcò 300 la motonave “Caboto” del Lloyd Triestino, altrettanti la “Napoli”, 390 la “Vivaldi” e 450 la “Sorrento” della flotta Lauro.

S’infittirono i negozi lungo la Cortina del Porto, oggi percorsa dal tram che si chiama desiderio dei vecchi tempi, quando era impensabile l’attuale degrado e i buoni affari arridevano pure ai tanti ambulanti che colorivano la banchina con bambole, souvenir e altri generi d’attrazione. In piazza Duomo in parecchi riuscivano a campare la famiglia, vendendo solo cartoline e foto della Basilica.

Pietro De Francesco, appartenente ad una famiglia di anarchici libertari, vendeva libri a rate per conto della Einaudi. Li esitava come qualsiasi altra merce da cui percepire una provvigione. A Cinecittà l’introdusse il sarto Giovanni Reale, tramite il fratello che esercitava la sua stessa attività nella capitale e ambiva di fare l’attore a tempo pieno. Malgrado vestisse gente di cinema otteneva solo particine, apparendo tra masnade di pirati, soldataglia imperiale e western all’italiana.

Toccò la stessa sorte a De Francesco che, pur essendo stato comparsa muta nelle “Vaghe stelle dell’Orsa” di Visconti, la vera fortuna gli arrise quando incontrò la ricca figlia del ministro delle poste venezuelane, Roraima Teresa Gomez. La giovane ventenne s’invaghì di lui, cioè del tipo prestante, piuttosto belloccio e con gli occhi grandi e tenebrosi. Regalo di nozze di papà ministro fu una villa che era stata dei Masaracchia in località Mortelle di fronte al lido del Tirreno e un vestito da sposa costellato da pietre preziose. I sontuosi festeggiamenti inclusero l’orchestra del “Gattopardo”, offerta da Aldo D’Urso, il filatelico messinese che a Roma gestiva l’omonimo night. La festa si concluse con i fuochi pirotecnici.

Parecchi invitati di De Francesco erano assidui frequentatori del Ritrovo Irrera di piazza Cairoli. Tra i primi ad arrivare, Salvatore Musmeci, detto barone “’mennula” per la sua attività di commerciante in mandorle. Le esportava specie in Germania, disquisiva in colorito dialetto catanese, narrandone il lungo soggiorno nella Berlino anteguerra, dove conobbe la moglie. Giunse in taxi l’agente marittimo Fofò Micali che sosteneva con decoro il titolo nobiliare di “marchese”, appiccicatogli per il tratto manierato d’aristocratico. Il suo comportamento elitario non defletteva nemmeno sulla spiaggia quando, come califfo nel deserto, centellinava champagne sotto un grande ombrellone bianco con il bordo centrale effigiato da un fasullo stemma gentilizio.

Gigi Pirandello, lontano cugino del drammaturgo, era oltremodo goloso. Iniziava col sorbire al mattino la granita caffé la cui panna, però, desiderava fosse posta sotto, anziché sopra come di consueto. Completava l’operazione, da messinese doc, con l’inzuppo del classico biscotto all’anice a posto della comune brioche. Una volta lanciò la scommessa che la sua Fiat Balilla sarebbe entrata in una bottega più stretta delle dimensioni dell’auto. Staccò di netto i parafanghi, però vinse il pattuito caffè! La sua fissazione per i primati lo portò a stabilire che avrebbe mangiato aguglie appena pescate. Montò sulla barca l’occorrente per friggerle ancora vibranti di fiocina. La sua mastodontica corporatura non consentiva equilibrismi per cui rovesciò la padella, fracassò la lampara con la bombola del gas e si salvò da maggiori ustioni buttandosi in mare. Per un incidente d’auto gli dovettero amputare un piede per cui predispose un funerale in piena regola, minicassa inclusa. L’avvocato Domenico Gervasi Ferrara giunse con la sua fiammante Fiat 1400 gialla cabriolet, che era stata esposta in Fiera dalla concessionaria Interdonato, quale macchina sportiva dell’anno.

Altro tipo bizzarro da inserire nel manuale delle “zingarate” e che aderì all’invito di De Francesco, fu Franco Romano, figlio di quell’Adolfo a cui si devono gli affreschi del salone delle bandiere di Palazzo Zanca e fratello all’architetto Giulio, detto Lilli, di recente scomparsa. Era un frequentatore delle così dette “putie” dove erano di prammatica “i ventri i piscistoccu a ghiotta”, “i favi a maccu” e “a cunigghiu”, “i stigghioli” che ancora resistono nelle feste di periferia. È facile individuare la postazione di cottura dal fumo, dall’odore intenso e particolarmente pungente, dovuto al grasso del budello-digiuno. Lulli, l’ultimo dei noti “taiunari”, ha chiuso la baracca “scialapopolo” situata lungo il muro della Palmara.

Franco frequentava il bar Dante, situato all’inizio della Via Garibaldi dal lato sinistro a scendere e, dai cui tavoli esterni si vedeva il cine teatro Peloro, in seguito abbattuto da mano palazzinara come il “Savoia” che lavorava pure d’estate, avendo il tetto interamente apribile. Negli ultimi tempi il Peloro era stato trascurato al punto che d’inverno l’avventore burlone richiedeva alla cassa: Un biglietto, “na’ cutra” e “na’ iatta”. Il primo era per l’ingresso, l’altra per il freddo, essendo notevoli gli spifferi ed infine il felino giovava per un topo che circolava liberamente tra le poltroncine della sala. La specialità del bar Dante consisteva in un cono che prendeva nome dal locale e aveva l’intera cialda di cioccolato. Era stato ideato dal titolare Adolfo Irrera a cui il Nostro dedicava una serie di scherzi perlopiù riservati all’indole parsimoniosa del soggetto che mal sopportava il cliente di lunga sosta e di poco consumo.

Vittima permanente di Franco era Puccio Bottari tra i dandy più in vista del tempo che, si può dire, vestisse la moda di adesso, cioè pantaloni a tubo, giacchetta corta, maglietta a giro collo e, occorrendo, ombrello alla Chamberlain.

Tra i grandi assenti a villa Gomez-De Francesco, Renato Irrera, a prescindere che amasse solo il pubblico dentro i suoi locali, il giorno della festa capitò nel periodo della vacanza che si concedeva al Quisisana di Capri, dove era di casa Beppe Giordano, contitolare della “Rotino spa”. Era uno dei tre grandi magazzini che operavano nel cuore commerciale della città, gli altri due erano “Rinciari” e “Siracusano”.

Nel confronto tra passato e presente trova prepotente spazio la considerazione che le avversità, per quanto crudeli, non scoraggiavano la gente di ieri, persistendo in loro la certezza di ripresa. L’oggi, rattoppato alla men peggio, con politicanti di bassa forza, di scarsa fantasia, combatte una guerra continua e feroce nata dall’odio.

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