Un’altra tegola sulla già precaria situazione finanziaria del Comune: dopo oltre trent’anni la Corte d’Appello, con la sentenza n. 249/2016 del 5 maggio scorso, ha posto fine alla vertenza che ha visto contrapposti l’Iacp e il Comune di Messina, condannando quest’ultimo ad un risarcimento del danno che l’istituto autonomo ha quantificato in 7,5 milioni di euro!
La vicenda riguarda l’area di parcheggio di via La Farina, sito che purtroppo è rimasto assolutamente sottoutilizzato rispetto alle sue potenzialità. «Con contratto stipulato nel 1983, a mezzo del quale si era posto fine a numerosi contenziosi tra i due enti, tra i quali anche quello inerente la proprietà dell’area dell’is. 158, il Comune – ricostruisce il commissario dell’Iacp ing. Venerando Lo Conti – si era obbligato nei confronti dell’Istituto a realizzare nell’area un edificio a sei piani da destinare a uffici pubblici ed a consegnare e trasferire in proprietà all’Iacp gli ultimi due piani».
Il Comune non ha però provveduto alla realizzazione dell’edificio e l’Iacp lo ha citato in giudizio dinanzi al Tribunale di Messina chiedendo il risarcimento dei danni per la mancata consegna degli immobili. La sentenza di primo grado n. 939/2010 dava torto all’istituto che però, tramite l’avv. Pasquale Gazzara, proponeva appello. E la Corte d’Appello ha riformato totalmente la sentenza di primo grado e condannato il Comune al risarcimento dei danni subiti dall’Iacp per la mancata consegna dei due piani nei tempi contrattuali stabiliti, oltre al pagamento delle spese processuali.
«Danni che – evidenzia Lo Conti – sono stati quantificati in 2.670.751 euro oltre interessi e rivalutazione dal 15.12.1992 sino al soddisfo. Dunque, sulla scorta della sentenza della Corte di Appello, dal calcolo eseguito dall’avv. Gazzara, la somma che ad oggi il comune deve all’Istituto sarebbe pari a circa 7,5 milioni di euro».
Il collegio della I sezione civile presieduto dalla dott. Elvira Patania e formato dai consiglieri Carmelo Cucurullo e Marilena Scanu, ha valutato i due aspetti fondanti della questione: da un lato la contestata impossibilità sopravvenuta della prestazione e la sua imputabilità o meno al Comune; dall’altro l’individuazione del criterio di valutazione dell’oggetto della prestazione cui il Comune si era obbligato, e la cui mancata esecuzione è stata pacificamente ammessa tra le parti, oltre che oggettivamente risultante dagli atti. Secondo la Corte, contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice, «non sussistono gli estremi di quella particolare causa di esonero del debitore da responsabilità in cui consiste la impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al medesimo, che estingue l’obbligazione». Mancherebbe infatti sia l’elemento oggettivo (non c’è sopravvenuta impossibilità, ma maggiore difficoltà di adempimento), sia quello soggettivo della non imputabilità al debitore che, secondo i giudici «non ha dimostrato di avere fatto tutto il possibile per adempiere» esponendo così la controparte «ad un inaccettabile rischio di perdita patrimoniale».
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