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Jhumpa Lahiri
oggi a Messina

A colloquio con la scrittrice anglo-indiana Jhumpa Lahiri, che oggi a Messina presenterà la sua ultima opera

«Ho scelto l’italiano. Il mio rifugio»

Dopo l’inglese e il bengalese, una nuova lingua per esprimersi “In altre parole”

 

 

di Francesco Musolino

Qui in Italia, dove mi trovo benissimo, mi sento imperfetta più che mai. Ogni giorno, mentre parlo, mentre scrivo in italiano, mi scontro con l’imperfezione. Più mi sento imperfetta, più mi sento viva». Dopo lo straordinario successo ottenuto con il suo libro d’esordio, la raccolta di racconti “L’interprete dei malanni” (Guanda, 2000, traduzione di Claudia Tarolo), con cui ha ottenuto il Premio Pulitzer per la narrativa, e il successo internazionale ottenuto con “L’omonimo” (Guanda, 2006, traduzione di Claudia Tarolo) – da cui è stato tratto anche il film di Mira Nair “Il destino nel nome” – la scrittrice Jhumpa Lahiri torna in libreria con “In altre parole” (Guanda). Nata in Inghilterra da genitori bengalesi, Jhumpa Lahiri ha trascorso tutta l’adolescenza negli Stati Uniti, ma in questo libro racconta la sua lunga storia d’amore con la lingua italiana, sbocciata vent’anni fa quando, appena laureata, compì il suo primo viaggio a Firenze; scattò subito la scintilla con la nostra lingua e una volta tornata a New York iniziò a studiarla. Ma le parole continuavano a sfuggirle e durante i suoi viaggi e le presentazioni in Italia, si rendeva conto che qualcosa non funzionava. Finché tre anni fa si trasferì a Roma con la sua famiglia e anche grazie ad Elena Ferrante arrivò finalmente la svolta.

Ne “In altre parole”, la Lahiri racconta con un linguaggio pieno d’immagini e metafore una storia d’amore infelice poiché lei sa bene che, nonostante tutto l’impegno profuso, non riuscirà mai a possedere davvero questa nuova lingua; eppure, proprio il fatto di sentirsi imperfetta, traditrice rispetto all’inglese e al bengalese, le dona una libertà inaspettata e per questo ancor più profonda. Il meritato tributo a questo percorso di conoscenza e riscoperta della lingua giungerà il prossimo 21 aprile quando Jhumpa Lahiri ritirerà all’Università per Stranieri di Siena la laurea honoris causa in “Lingua e cultura italiana per l’insegnamento agli stranieri e per la scuola”. Per la prima volta in Sicilia, oggi a Messina alle 18.30 Jhumpa Lahiri incontrerà i lettori a Santa Maria Alemanna. L’autrice sarà introdotta dal direttore della “Gazzetta del Sud” Alessandro Notarstefano nell’ambito di un evento dal prestigio internazionale, organizzato dalla libreria cittadina “La Gilda dei Narratori”.

Al festival romano LibriCome ha dichiarato che il suo rapporto con l’italiano è quello di un amore inappagato, un amore senza possesso. Un’immagine molto bella.

«È un amore sempre più profondo ma lo provo soltanto io. Non mi sento amata dall’Italiano, non si tratta di un “dialogo”. Soprattutto per questo mi serve scrivere. Mi trovo sempre “sulla soglia” e vorrei finalmente entrare, vorrei ci fosse uno scambio che però non accade. C’è anche un lato angosciante nell’amore, in qualsiasi amore e la mia esperienza con l’italiano ne è intrisa».

Molti scrittori decidono, così come i cantanti, di usare l’inglese per aumentare il proprio pubblico potenziale. Lei ha fatto il percorso inverso. Perché ha scelto l’italiano?

«Cercavo qualcosa. Avevo bisogno di un altro punto di riferimento anche per sanare il conflitto con le altre due lingue della mia vita, che mi sono state imposte. Ho scelto una lingua cui non appartengo ma che sento mia attraverso la scrittura e, prima ancora, tramite la lettura, ed è un legame fortissimo. Ho scelto l’italiano perché mi sento sempre in bilico, imperfetta. Ho scelto l’italiano perché volevo rimettermi in gioco con una scelta totalmente personale che apre un discorso estetico-filosofico».

Descrive il suo rapporto con l’inglese, il bengalese e l’italiano come se componessero un triangolo, una cornice e ciascuna di esse la definisse in qualche modo. Pensa che ne arriverà una quarta in futuro?

«Non credo. La forma del triangolo mi piace, complessa, pura, semplice. Del resto davanti a molti tempi, persino al Pantheon a Roma, c’è proprio un triangolo che io associo alla stabilità e, al tempo stesso, alla trasformazione».

Scrivere in italiano, scrivere in una lingua che la sua stessa famiglia non comprende, cosa vuol dire per lei?

«Significa essere liberi che è tutto. Ho sempre cercato la libertà fin da quando ero bambina, cominciando a leggere e a scrivere in inglese, non in bengalese, per trovare la mia dimensione. Ma con il tempo questo spazio è mutato anche per via del successo ottenuto da scrittrice, per cui oggi scrivere in italiano è un modo per rifugiarmi, per sottrarmi da una gabbia dorata perché l’essere noti conferisce molte possibilità ma è anche molto ingombrante. In definitiva, credo che gli scrittori siano sempre in fuga, dalla famiglia, dalla cultura, da se stessi. Per me la libertà è la possibilità di essere un'altra persona, per buttarmi in un altro mondo, in un altro cervello, in un altro cuore».

In un’epoca così mediatica l’agire di un’autrice sfuggente come Elena Ferrante, la cui vera identità è sconosciuta, crea un cortocircuito. In una lettera aperta a lei dedicata, ne elogiava la scelta. Perché?

«La sua strategia è centrata sulla ricerca della libertà totale per poter scrivere qualsiasi cosa. Purtroppo mi rendo anche conto che io non potrei più tirarmi indietro, non potrei più avere questa libertà estrema. Potrei scrivere sotto falso nome, sarebbe una via. Ma è il mio amore per l’italiano il mio rifugio. Scrivendo in questa lingua mi sento finalmente libera dal mio stesso passato, dai miei stessi conflitti».

All’inizio usava un piccolo dizionario verde tenendolo sempre in borsa e consultandolo febbrilmente. E oggi?

«Lo porto ancora con me anche se risente degli anni passati. Era un dizionario monolingue, italiano per stranieri, ma ormai non mi serve più. Le parole che incontro leggendo adesso lì non le trovo più e ciò segna un grande traguardo. Ma è anche un concetto interessante in senso lato, ovvero: quali parole servono agli stranieri? Chi decide il lessico per stranieri?».

Il 21 aprile riceverà una laurea honoris causa a Siena. Un traguardo nel traguardo?

«Sto finendo di scrivere il testo per la mia lectio magistralis, proprio sul tema dell’apprendimento dell’italiano, ma ormai credo d’aver concluso questo lungo viaggio d’avvicinamento alla lingua».

Il tema del tradimento è presente nella sua scrittura sin dalla sua prima raccolta, “L’interprete dei malanni”. I segreti e i diversi livelli di verità si legano proprio al concetto della scrittura?

«Hai ragione, è un tema costante con varie declinazioni tanto nella mia scrittura che nella mia vita. Mi sento una traditrice, perché ho dovuto gestire questi mondi incompatibili sin da quando ero giovanissima. La figura del triangolo ritorna perché da una parte ci sono io, da un’altra la mia famiglia, l’India, le mie origini e il bengalese, infine, c’è il mondo in alternativa. Ma sono convinta che tutto sia cominciato da bambina, leggendo in inglese mentre i miei genitori parlavano il bengalese in casa. Pagina dopo pagina entravo in un altro mondo, un’altra lingua, un’altra sensibilità, profondamente diversi dal mio bagaglio culturale d’origine. Oggi questo processo è arrivato al culmine: per quarantacinque anni ho creato un’identità e poi, arrivata in Italia, ho deciso di tradirla».

Crede che la forza della letteratura possa essere anche quella di eliminare la distinzione fra “noi” e “loro”, sconfiggendo i luoghi comuni e la paura di ciò che non si conosce?

«Certamente. Cos’è che ci apre la mente? Viaggiare, incontrare l’altro e la lettura. Non tutti possono viaggiare, e anche se mi piacerebbe chissà se andrò mai in Cina o in Russia. Siamo tutti limitati nella conoscenza diretta di altre culture ma c’è sempre un libro, ci saranno sempre pagine che permettono uno scambio con il lettore e quelle parole potrebbero anche cambiarlo per sempre. Bisogna capire che siamo tutti “noi”, tutti inclusi, non c’è alcun “loro”, non c’è alcun confine culturale da proteggere».

 

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