C’era una volta un bimbo con un compito. Che riempiva i quaderni di firme come fossero prove d’autografo. Che si chiudeva in bagno e con la spazzola di nonna s’intervistava. Che ancora non sapeva di poter fare l’artista, ma già aveva la coscienza di voler essere al centro dell’attenzione. E far ridere gli altri, per istinto. In classe, poi durante il lavoro al cantiere navale di Viareggio, quando da cameriere intratteneva i clienti. È sempre stato così Giorgio Panariello. Ci nasci così. Oggi che le mascherine nascondono il sorriso (che «per un comico è come per uno stilista non vedere più i colori»), con l’ansia di riconnettersi alla gente e la voglia, la volontà di riprendersi... c’è un uomo e il suo nuovo spettacolo (che farà tappa a Taormina il 24 luglio), di mezzo, tra un libro che è stato e "La favola mia" che sarà, il prossimo anno.
S’intitola “Story”, è uno spin-off, Panariello che racconta Panariello.
«Sono storie e desiderio di condividerle, lo stesso che avevo a vent’anni. Storie che, quando ho cominciato a conoscere quei personaggi del mio patrimonio artistico, non avevo il telefonino per pubblicare. E probabilmente, se avessi potuto, si sarebbero perse».
Quelle sono a tempo determinato.
«Si consumano in 24 ore. Invece io ho potuto assimilare i caratteri e portarli alla gente. Questo show è un passaggio intermedio per raccontare tutta “La favola mia”. E lo è stata realmente, con il lupo cattivo, le principesse, le cose belle ma pure quelle brutte».
Dietro il comico c’è il drammatico...
«La comicità si basa sul dramma. Vedi Fantozzi, Charlie Chaplin, i film di Totò, Sordi. Si rideva sulla miseria, sulla precarietà, sugli uomini ai confini, oltre i margini. Sono paralleli umorismo e tragedia. Molti grandi comici lo diventano dopo aver vissuto grandi dolori, per reazione».
I tuoi personaggi sono caricature della tua vita...
«Da giovane non potevo permettermi neanche di andare al cinema. Il cinema era il bar. C’era tutta gente che d’estate non vedevi mai, ma durante l’inverno uscivano come i funghi. L'ubriaco, il bagnino che raccontava la sua stagione, ovviamente colorando. Merigo, Simone, tutti personaggi che ho portato in scena».
Oggi cosa c’è da ridere?
«Veramente poco. Ma noi italiani siamo straordinari, basta guardare i meme, quello che gira sul web che ormai è il nostro riferimento. La rete è “libera”, mentre in tv il comico è sotto lo scacco del politicamente corretto».
I tuoi tempi comici preferiti dove stanno?
«Dal vivo. Dove li detti tu, senza fretta di chiudere la gag nel tempo stabilito, senza l’incombenza della pubblicità o degli ascolti. In teatro l'Auditel è immediato, vedi subito come va e semmai cambi in corsa. Il teatro ti lascia più righe su cui scrivere».
In che momento sei?
«Mobile. Durante il lockdown ho scritto un libro, uno spettacolo, la trasmissione con Giallini. Vado incontro al tempo. Ho scritto tanta di quella roba che neanche me la ricordo, la mia paura è proprio questa».
“Io sono mio fratello”, scriverlo è stato un bisogno?
«Me ne sono accorto dopo. Era un monologhetto su Franco, lo spettacolo è slittato e mi sono messo a risistemarlo un po’. Ho preso lo spunto, l’ho allargato, dovevo farne un libro. Ho percepito anche la necessità di togliermi di dosso il senso di colpa nei confronti di mio fratello. Il debito: io ce l’ho fatta e lui no, io mi sono realizzato e lui no».
Stasera l'Italia. Mancini e Vialli come te, Conti e Pieraccioni?
«Alla base, come tra loro, c’è un percorso simile. In Toscana non c’è una scuola come quella romana di Proietti e Montesano o quella milanese del Derby. C’è Benigni che ha fatto il suo, Nuti lo stesso. Il nostro fu proprio un ceppo, condiviso. Condividere il palcoscenico per un comico è complicato, ma con Pieraccioni, oltre che un segno di magnanimità (perché gli do una mano a questo ragazzo che ne ha bisogno), non è divisivo, anzi!».
Non state lì a rubarvi la scena.
«No no, ma lui ogni tanto ci prova...».
Invece Carlo?
«È quello che sta nel mezzo e le busca. È la spalla ideale. In scena nasce la competizione, quella sana. Del tipo… tu hai fatto una battuta senza dirmi niente… e mo’ ti frego io. Quelle improvvisazioni che poi teniamo…».
Giorgio oltre Panariello. Il canovaccio migliore.
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