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A Messina arriva l'ex Zeman. Tanti gol, zero compromessi: “Schillaci? Il più forte era Maurizio"

«Gli applausi valgono più del risultato, ho pagato per certe “battaglie”. Schillaci? Il più forte era Maurizio»

Un uomo libero e il suo concetto di calcio pulito, spettacolare, offensivo. Se dovessimo sintetizzare la vita sportiva di Zdenek Zeman, da poco tornato sulla panchina di una delle squadre in cui nella sua seconda vita professionale, quella un po’ più distante dai riflettori, ha lasciato un timbro forte, il Pescara – di scena oggi a Messina –, basterebbe proprio il titolo scelto dal tecnico boemo per racchiudere in un’autobiografia – edita da Rizzoli e scritta con l’amico-giornalista Andrea Di Caro, vicedirettore della “Gazzetta dello Sport” – cinquant’anni di calcio: la bellezza non ha prezzo. Perché lui la bellezza ce l’ha dentro dalla nascita e l’ha sempre espressa, con i suoi concetti, le parole libere di un uomo semplice ma rigoroso e mai legato a nessun carro, col suo spettacolare 4-3-3 – marchio di fabbrica di un calcio che ha fatto epoca – senza mai scendere ad alcun compromesso. Restando a distanza da un mondo in cui spesso si è sentito un intruso per la sua naturale ritrosia a cambiare qualcosa del suo modo di essere pur di restare se stesso, anche a costo di non rientrare mai nelle preferenze degli storici padroni del nostro calcio.
Perché lui non si è mai piegato a nessuno schema, restando quel ragazzo già avanti a tutti nei tumultuosi anni Sessanta che nei tempi bui della Cecoslovacchia, fino alla Primavera di Praga, ha coltivato i suoi ideali e poi aperto le ali al suo sogno, raggiungendo lo zio Cestmír Vycpalek («Mio nipote parla poco, ma mai a vuoto», diceva del giovane “Sdengo”) a Palermo per affermarsi insegnante di sport. Dalla pallamano al calcio in quella Palermo tanto diversa dal suo modo di essere ma subito entratagli nel cuore fino a fargli trovare l’amore della sua vita (la signora Chiara), dalla Primavera – una piccola Olanda rosanero con tanti “picciotti” in rampa di lancio – al miracolo Licata, da Zemanlandia al calcio-champagne mostrato con Roma e Lazio, le sue vittorie se l’è prese, anche se quella bacheca è rimasta sempre povera di metallo: «Possedere una mentalità vincente non significa vincere sempre, ma giocare sempre per vincere – ama ripetere il boemo –. Spettacolo e ricerca della bellezza è sempre la strada giusta da seguire».
Il calcio è spettacolo e il gol è la sua essenza. Non mi importa prendere gol se ne hai fatto uno in più dell’avversario: meglio un 5-4 di un 1-0».
La bellezza oltre il risultato: «La più grande soddisfazione è uscire tra gli applausi anche quando perdo». E non c’è vittoria più bella del segno che ha lasciato, di quel calcio che ha portato in Italia e della riconoscenza che centinaia di giocatori, spesso partiti dalle categorie inferiori, mai gli hanno negato fino alla stima conquistata in Italia (e nel mondo) per il suo essere limpido e originale, un sognatore che non ha mai perso le speranze di lavorare in un mondo pulito, un “rivoluzionario” lontano anni luce da un calcio inquinato dal quale è spesso stato un accusatore finendo, per questo, troppo presto ai margini. Perché certe “battaglie” le ha pagate sulla sua pelle.
E non dimentica di essere nato tifoso della Juventus ma poi diventato nemico numero uno di un sistema che ha combattuto, soprattutto alla voce doping con quei sospetti di muscoli gonfiati di cui Zdenek divenne il simbolo dell’attacco al football marcio: «Mi sono fatto molti nemici ma il mio obiettivo è sempre stato il bene del calcio».
Proprio lui che la sua “droga” è stata sempre il sacrificio, la corsa, l’allenamento esasperato, i gradoni che garantiscono forza ed esplosività fondamentali per la bellezza del suo calcio.
Il suo calcio a cento all’ora e i suoi campioni preferiti: «Totti il n°1. Classe, passione, divertimento, spensieratezza, altruismo, sacrificio. È il sogno di ogni bambino che diventa realtà». E Signori, scoperto quando allenava... il Messina: «Segnò un gol contro di noi. Faceva la mezzala e pensai: “Questo ragazzo sarebbe un perfetto esterno d’attacco”. E lo volli con me». Fino agli Schillaci di cui ha una certezza: Maurizio era più forte di Totò. «Senso del gol capacità di vedere la porta da ogni posizione e tiri improvvisi, scagliati senza paura di sbagliare. Un Igor Belanov in salsa sicula. Questo era Totò. Ma lo Schillaci più forte era suo cugino Maurizio, simbolo del mio Licata di cui fu per due anni capocannoniere. Totò viveva per il gol, Maurizio per divertirsi, in campo e fuori. Grande talento, tecnicamente fortissimo, pieno di fantasia e irriverenza. Per certe giocate mi ricordava Best. Lo schieravo largo nel tridente e aveva tutto: corsa, progressione, colpi, senso del gol e altruismo. Buono come il pane, ma con una testa matta. Non ha avuto dalla carriere ciò che meritava. E neanche dalla vita».
Zdenek è anche questo: un maestro dal cuore d’oro. Silenzi, pressing e lo spettacolo che ha sempre garantito su ogni campo. Le sue partite belle e limpide, come la storia di quel ragazzo sognatore partito da Praga con una valigia piene di speranze. E di gol.

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