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Franco Caccia compie 70 anni: "A Messina i miei anni più belli"

«L'esterno destro? Tutto nacque per caso ai tempi della Samp. Il Professore era già avanti con le sue idee. Il calcioscommesse? Mi presi una colpa che non meritavo»

Il suo genio brilla ancora nella galleria biancoscudata dei ricordi più belli. Non è un caso che a Messina sia stato soprannominato “Sua Maestà”. Non un calciatore qualsiasi, ma una delizia per gli occhi. Bastava poco per innamorarsi del suo inconfondibile stile da Serie A. Ed è assurdo che uno della sua classe non abbia mai calcato il palcoscenico più prestigioso. Un artista del pallone, un Giotto degli anni Ottanta che ha infiammato il “Celeste” con numeri di classe pura al servizio di una squadra bellissima di cui è stato simbolo e trascinatore unico.

Franco Caccia oggi compie settant'anni e dopo aver gestito per anni un tabacchino in centro ad Ancona si gode la pensione guardando calcio in tv: «La passione per il pallone non tramonta mai. Anche se è tanto diverso rispetto a quello dei miei tempi...», ammette. Trentasei anni fa i suoi ultimi dribbling in quel di Foggia: Messina promosso da una settimana in B e l'uscita di scena, da signore, di un grande fuoriclasse di periferia che avrebbe meritato una carriera più prestigiosa. «Lasciai nel periodo migliore per me: Messina a 31 anni mi aveva riacceso l'entusiasmo, ma sul più bello il sipario calò e mi ritrovai a casa dopo aver regolarmente svolto il ritiro a Città della Pieve in un clima di sospetti».

La vicenda è quella triste del calcioscommesse che piombò sulla strada di quel Messina e chiuse anzitempo la carriera di uno dei più forti “11” mai visti in riva allo Stretto: «Una storiaccia dentro cui mi ritrovai, mio malgrado, coinvolto. L'accusa puntava il dito contro la squadra, rea di aver tentato di addomesticare due partite, entrambe in casa contro Salernitana e Cavese, che poi abbiamo vinto. Però ormai ci avevano messo dentro questa brutta storia e qualcuno doveva sacrificarsi per chiudere quella “partita”. Così a 34 anni mi addossai una colpa che non avevo. Quello che mi fece più male fu il distacco della società: non mi sentii tutelato, ebbi sostegno solo dai compagni e da tanti messinesi che a distanza di anni, in occasione della festa di un club di tifosi a Messina (il trentennale dei “Fedelissimi” al “PalaRescifina” con la presenza di Scoglio e dei suoi “bastardi”, ndr), capirono il valore di quel mio gesto».

Tre dei suoi settant'anni li ha trascorsi a Messina. Qual è l'immagine che le viene subito in mente?

«Il mare che avevo di fronte casa, a Santa Margherita: quando era arrabbiato sbatteva sulle finestre! E poi l'affetto della gente e la bolgia del “Celeste”: per gli avversari era durissima fare punti, con quel pubblico ci sentivamo più forti e anche l'arbitro avvertiva la pressione ambientale».

Estate 1983: come arriva Caccia a Messina?

«Per le insistenze dell'avv. Nucifora, mio vicino di casa a San Benedetto del Tronto, che collaborava col Messina. Venne così tante volte a offrirmi il contratto che a un certo punto non potetti dire di no: la Samb per un'altra stagione mi offriva due milioni di lire in più, niente di più. Sapone, invece, mi raddoppiò l'ingaggio: feci le valigie e l'indomani mi ritrovai a Messina».

Un anno così così, poi arriva Scoglio e Caccia diventa devastante…

«Dicevano che ero sovrappeso, balle. La verità è che al primo anno stentai perché non ero più abituato al calcio della Serie C. Prendevo tante botte e imporre la propria tecnica su quei campi non era facile. La squadra faticava e io non trovavo il passo giusto. Però eravamo un bel gruppo: con Repetto, Ceccarini e Silva c'era un'ossatura di grande esperienza perché la società era ambiziosa e si puntava in alto. Ci salvammo alla penultima giornata».

In estate ci fu una mini rivoluzione. Ma Caccia restò.

«Dei grandi, fui l'unico a cui fu offerto il rinnovo. Aveva appena firmato Scoglio e il mister convinse il club a rinnovarmi il contratto nonostante guadagnassi molto: Massimino lo accontentò e mi fece firmare per due anni. Fu l'inizio del mio periodo più bello e divertente da calciatore».

Gol e magie mentre il Professore forgiava una squadra che avrebbe lambito la Serie A…

«Con lui fu subito feeling. Seppe conquistare lo spogliatoio con garbo, rispetto e idee. Era già avanti vent'anni rispetto ai suoi colleghi e quel Messina sapeva difendere bene ed essere ultra offensivo con due punte (Diodicibus e Schillaci, ndr), il sottoscritto e Catalano liberi di spaziare alle spalle, Venditelli e Mancuso che erano due vere ali e Napoli, terzino col vizio del gol: c'era una squadra più offensiva della nostra? Con le palle inattive il mister mi facilitò la vita, permettendomi di incidere senza correre troppo. Regalare assist era per me gioia pura».

C'è un gol o una giocata che ricorda con più orgoglio?

«Direi il gol a Licata: non fu una passeggiata battere quei ragazzini terribili di Zeman su un campo in terra battuta. La mia serpentina sbloccò la contesa, ma la vincemmo solo nel finale. E poi il gol al Palermo: dicevano che ero stato fortunato a segnare con un cross di sinistro, ma era tutto voluto e feci il bis contro la Casertana».

L'esterno destro è stato il suo marchio di fabbrica...

«E tutto nacque per caso, alla Samp: il dolore per un guaio alla caviglia mi spinse a calciare meno di piatto e a usare di più l'esterno. Fu l'inizio della mia fortuna. Vedevo che le traiettorie, soprattutto dalla bandierina, mettevano in difficoltà il portiere avversario e poi mi venne naturale giocare in quel modo e sfornare assist. Quanti gol sono nati dal mio esterno destro!».

Catalano, Schillaci, Bellopede, Napoli: quant'era divertente dirigere l'orchestra di quel Messina?

«Seguivamo alla lettera il nostro allenatore che era anche un grandissimo motivatore. Con tutta quella qualità era più facile vincere. Peppe era un 10 con un innato senso del gol, Totò aveva l'istinto del killer in area ma era ancora tatticamente immaturo, Antonio era un grande libero e un leader al quale bastava uno sguardo per comunicare, Nicolò era fortissimo anche in area avversaria. Ma io stravedevo per Repetto: aveva un'intelligenza tattica fuori dal comune».

Il rimpianto è la A mai vissuta?

«E anche la B che mi è stata negata a Messina. Tanti ex compagni mi hanno confidato una stessa sensazione: con me ancora in campo quella squadra sarebbe andata in Serie A. Sì, quella B la meritavo. E chissà come sarebbe andata a finire in quel lontano 1987...».

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