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Messina, il 25 Aprile di nonno Mario: "Una bomba mi scaraventò a terra"

Una storia di drammatica ma anche meravigliosa Liberazione

«Mi chiamo Mario Santoro. Ero un ragazzino minuto e ora sono un minuto vecchietto nato nel 1929. Le cicatrici me le porto ancora addosso e per questo dico che la guerra è brutta e non solo non si deve fare ma neanche pensare di farla». Il campo di battaglia e i libri di storia ci parlano sempre di alleati e perdenti, ma nelle pagine dimenticate di una grande guerra, come quella mondiale, ci sono anche loro: le vittime civili. Sopravvissute con le cicatrici che si portano addosso. Segni che fungono da monito e che con la loro presenza danno la forza per lanciare un messaggio pacifista.

«Era il 30 gennaio del 1943. Quella mattina – racconta il signor Santoro – me la ricordo come se fosse ieri. Il sole splendeva. Mia madre mi mandò in giro a sbrigare una commissione e ad un certo punto, mentre mi trovavo a piazza del Popolo, suonò la sirena che lasciava intendere che dovevamo proteggerci dalle bombe che sarebbero arrivate a distruggere tutto. Io scappai assieme ad altri verso il ricovero di Santa Marta, ma prima di mettermi al riparo ci fu un' esplosione che mi scaraventò a terra». I suoi occhi da tredicenne si chiusero per un tempo indecifrato, ma quando riprese conoscenza si rese conto che la corsa non poteva riprendere con lo stesso slancio. Anzi, precipitò a terra appena ci provò: «Piovevano calcinacci e mi resi conto che mi ero ferito – continua nel racconto – ma non mi persi d'animo e mi sono letteralmente strascinato con i gomiti e la gamba sinistra. Ricordo che un signore appena mi vide cominciò a gridare il suo sos disperato: "Aiuto, aiuto, qui un ragazzo perde sangue"».

Una carrozza lo portò al Piemonte e gli infermieri lo buttarono in un lettino insieme ad altri due feriti fino a quando i sensi vennero meno nuovamente. E così il giovane si ritrovò a Cristo Re, dove si discuteva sul da farsi, e qualcuno arrivò perfino a dire che quella gamba si doveva amputare. Ma l'epilogo non fu così triste: «Le bombe mi perseguitavano pure in ospedale e ricordo che una crocerossina con i capelli rossi, di cui custodisco gelosamente il cognome, D'Amico, diventò il mio angelo custode. E quando suonava l'allarme mi portava nel cantinato. Io mi aggrappavo a lei e alla sua forza e questo rituale si ripeteva puntuale tutte le volte che si presentava la necessità». E la storia si arricchisce di umanità e di generosità e si intreccia con personaggi messinesi sconosciuti e molto noti: «La domenica mattina, il giorno dopo l'infortunio, vennero il prefetto e la signora Bosurgi, il cui nome era legato alla Sanderson, l'industria agrumaria messinese. Mi portò un album da disegno con colori e 500 lire. Un gesto affettuoso scandito da parole di coraggio, che mi sarebbero servite. Infatti, lì passai ben 3 mesi e 18 giorni. Vivevo immobile con una gabbia affinché le coperte non si appoggiassero sulla gamba, e finalmente rividi la luce il 18 maggio. Non perché stessi bene, ma dovevo lasciare il posto ad altri feriti. E in ospedale tornavo per le medicazioni. La vita mi era cambiata, dovevo giocare a pallone e invece mi sono ritrovato a trascinarmi con un bastone sullo stomaco». Messina diventava un teatro di guerra da colpire più ferocemente e Mario, quando usciva di casa, andava in una collina vicina sotto un ramoscello di ulivo a guardare ciò che avveniva perché dopo tutto quello che aveva passato la paura che gli si era appiccicata addosso era quasi svanita. E si materializza il momento in cui tutto stava per finire e l'armistizio era vicino: «Si dice che l'8 settembre era quasi finita. Abbiamo visto lo sbarco degli angloamericani che da Messina sono passati in Calabria. I tedeschi sparavano su Messina perché dalle città siciliane cominciavano a venire gli americani e gli inglesi. Era il 2 settembre del 1943 e in via Fondo Sterio una cannonata uccise nel suo letto un sedicenne che si chiamava Piero Balsamà, figlio di un bottegaio. Il 3 settembre lo sbarco dalla Sicilia a Villa San Giovanni. I miei nipoti che sono andati in Francia mi hanno portato una cartina che documenta questo passaggio. Lo ripetevo che ero testimone oculare. Sempre io, la stessa persona colpita dalle bombe degli americani, ha visto lo sbarco degli americani entro l'anno».

E Mario ricorda tutti i particolari persino lo sbarco senza spari e le zattere anfibie cariche di militari e materiale bellico che arrivavano alla Lanterna del Montorsoli: «Io sono un piccola formica che guardava da un tronco di ulivo la fine della guerra. Il resto lo racconta la storia. Chi ha combattuto. Chi è perito. E chi si è sacrificato. I miei fratelli Pietro e Giuseppe sono stati imprigionati. Giuseppe, arruolato nella marina militare, non volle aderire alla Repubblica sociale, divenne partigiano e fu catturato dai tedeschi e deportato nel lager di Nordhausen fino all’aprile del 1945. Fortunatamente li rividi tornare entrambi nella nostra Messina». Mario Santoro agli occhi della società civile poteva sembrare un uomo qualunque, con l'invalidità certificata da un foglio scritta in bella forma, ma la sua microstoria, personale e familiare, racchiude una macrostoria, quella che ha portato alla liberazione dal nazifascismo e che ha mietuto tantissime vittime. E la sua guerra, forse, non è mai finita. E appena chiude gli occhi per prendere fiato si ritrova nel ricovero antiaereo Cappellini, dove con la sua gamba malconcia si rifugiava respirando fetore: «Oggi è un bellissimo museo. – conclude – Ai giovani dico: visitatelo». Mentre stringe le pagine della Gazzetta del Sud e i libri di Storia che non racchiudono mai tutto il dolore tra le righe...

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