«Del resto chi avrebbe mai immaginato qualche tempo fa che sarei finito a Sanremo?». Chi ci avrebbe mai scommesso sul suo nome tra i 25 Big del prossimo Festival? Eppure ci sarà, pure lui, proprio lui. Dargen D’Amico, il “cantautorap” dagli occhiali scuri, l’uomo dietro le quinte di quelle lenti che sono un accessorio da cui filtrare il suo mondo. Jacopo, l’artista che, se anche copre gli occhi, d’altra parte non nasconde il sole eoliano da cui proviene, di quella Filicudi - isola isolata - che gli scorre nel Dna grazie all’origine siciliana dei suoi genitori.
Eccolo lì Dargen. Che ha preso forma nel rap degli anni Novanta. Che ha incontrato la strada tradizionale, italiana delle influenze di Lucio Dalla. Dargen il ricercatore classico, lo sperimentatore elettronico che ha lambito il pop quando ha incrociato l’urban, che “lo ha inglobato e io, come tanti altri mi ci sono ritrovato”. Dargen il provocatore, la curiosità.
Che fosse una delle scelte di Amadeus lo ha “scoperto dal Tg”. Non un debutto assoluto, al festival di Sanremo in qualche modo, a modo suo c’era già stato. Come autore (l’anno scorso per Annalisa e per Francesca Michielin e Fedez) o come giurato per Area Sanremo (nel 2013). Stavolta però dovrà tirarsi fuori, uscire allo scoperto, scendere le scale e salire sul palco. A favore di luce, con tutta la sua anima dance. Un’esperienza che, con un disco già pronto nel cassetto, sarà come «un passaggio da un livello all’altro. Come un radar, capirò qualcosa in più di me».
Canterà “Dove si balla” (scritto insieme a Gianluigi Fazio, Edwyn Roberts e Andrea Bonomo), ballerà “per restare a galla”. Nella vita degli ultimi anni, tra le “mascherine” e una certa fine, tra gli “incubi mediterranei, che brutta fine fermi al confine”, per esorcizzare, per schiodarsi da quella croce “senza live con il pile sul divano” e riprendersi la scena. Non si sottrae Dargen, non rinuncia al testo “impegnato”, né alla sua chiave di lettura del momento. Tra parole dure e note leggere, non perde l’occasione della contrapposizione, neanche stavolta.
Sarà che finalmente a quarant’anni qualcosa si è compiuto. «Sento di essere cambiato, di essermi evoluto. Tendo ad avere dei momenti di passaggio al compimento delle decine, sono legato al numero e al passaggio di decade. Mi era successo anche con i 30, con una crisi personale. Cambio il modo di vedere le cose, elimino abitudini per rimpiazzarle con altre, ridefinisco la condivisione degli spazi e del tempo nel rapporto con gli altri. È come un ritorno a me stesso. E prendo le esperienze per guardarmi da fuori e indagarmi».
Forse s’inquadra in questa ottica la scelta di non avere ospiti per la serata cover di venerdì. Solo, con La bambola” di Patty Pravo. Il Dargen delle collaborazioni (con Fedez, Fabri Fibra, Marracash, Rkomi, Club Dogo, J-Ax, Rancore, Benny Benassi, Enrico Ruggeri, 883, Tedua...) senza condivisioni. Spiazzante? Anche no. «Amo le collaborazioni non solo per la musica che si fa insieme, ma anche per il tempo che si passa, un lato della musica che vivono solo gli addetti ai lavori».
E vale la pena di ricordarlo, di sottolinearlo oggi più che mai che quello dell’artista è un mestiere. «Anche se da due anni a questa parte per molti non può più esserlo. Non abbiamo un sindacato, non c'è un gruppo forte che abbia autorevolezza per sedersi a tavoli istituzionali. Sarebbe bello se anche la scienza si sedesse con noi per trovare una soluzione sui concerti».
Tranne che a Sanremo. Al Festival la famiglia si crea, il gruppo si salda, ma la competizione resta. Allora... ansia da prestazione?
«Mi concentro sulla definizione: Festival della canzone italiana e quindi partecipo con il mio brano. L’obbligo lo sento solo in questo senso. Il resto è tutto accessorio, anche i miei occhiali da sole, ai quali non rinuncerò. Un controsenso? La vita ne è piena».
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