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Messina, oggi l'atteso concerto dei Negramaro. Giuliano Sangiorgi nella terra di "famiglia". IL RACCONTO

Un'ultima data per festeggiare al contempo la fine e l'inizio. Un'ultima data per salutare il 2022, anno del Negramaro Unplogged European Tour 2022 con le sue oltre 40 tappe, e accogliere quel 2023 che segnerà i 20 anni di carriera. Un'ultima data per riscoprire il Contatto, quella matta voglia di stare con la loro gente, di toccarsi, strofinarsi, odorarsi, dopo due anni di nulla. Festeggiare il ritorno alla vita, ritrovare quel pubblico che non li ha mai lasciati.

Questo sarà il concerto di stasera, ore 21, dei Negramaro a piazza Duomo a Messina, apice dei festeggiamenti in musica voluti dall'Amministrazione targata Federico Basile (ingresso gratuito organizzato dal Comune di Messina in collaborazione con la Musica da Bere Srl di Carmelo Costa). Un evento sulla scia del progetto per trasformare Messina nella città delle note, dei grandi eventi e della musica d'autore. Quella di Giuliano Sangiorgi, voce straordinaria e inconfondibile della band pugliese e della musica italiana che nella città dello Stretto firmerà un'altra straordinaria data di questo indimenticabile 2022. Il Negramaro Unplogged European Tour - organizzato da Live Nation -  è stato un evento: 3 mesi di tour e oltre 40 date che hanno portato la band a esibirsi non solo in Italia, da Nord a Sud, ma anche all'estero, tra le tappe anche Francoforte, Barcellona, Londra e Parigi. Una "storia" costruita - come detto - sulla parola Contatto nella dimensione ristretta e calorosa del teatro, un modo per suggellare con il proprio pubblico un legame ancora più stretto e ancora più intimo, dando vita a uno spettacolo in cui può succedere di tutto perché a teatro il direttore d'orchestra che alza la bacchetta è il pubblico. Domani sera non ci sarà il teatro ma la piazza. In quella Sicilia che per Giuliano Sangiorgi è il ritorno al passato, alla terra di suo padre Gianfranco, nato a Caltanissetta, "che era un uomo fatto di terra e Sicilia e mi ha fatto amare l’Isola fino all’impossibile".

Quella Sicilia che Giuliano Sangiorgi aveva voluto raccontarci 4 anni fa, in occasione del concerto allo Stadio SanFilippo nell'estate del 2018, con un testo inedito per Gazzetta del Sud.

Eccolo riproposto. 

"Aspettavo la campanella come un segnale per scatenare la battaglia. Chissà contro chi, poi... La campanella era quella del mercoledì, ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Pasqua. Zainetto in spalla, ero il primo a fiondarmi fuori dal portone della scuola. Quelli sul piede di guerra erano tutti bambini ansiosi di cominciare quei giorni di festa: un esercito di folletti armato di gioia incontenibile. Ma la mia era più rumorosa e più grande di tutte quelle felicità messe insieme. Correvo fuori, cercando con lo sguardo la macchina di mio padre, piena di valigie, di fratelli (due) e di mamme (una, ma infinita). Non cominciavano solo le vacanze. Per me aveva inizio il più avventuroso e fantastico di tutti i viaggi possibili: quello verso una terra magica, che, all’epoca, doveva sembrarmi affascinante e popolata di meraviglie come Narnia.
La nostra macchina era l’armadio incantato, la porta d’accesso per una nuova dimensione in cui i giorni, da lì in poi, o almeno, di sicuro, fino al Lunedì dell’Angelo, si sarebbero susseguiti in uno spazio temporale unico nell’arco dell’anno, irripetibile. La terra promessa era la Sicilia e il viaggio per raggiungerla era lungo quasi quanto un esodo biblico. Anzi, noi facevamo in modo che il tragitto sembrasse il più lungo possibile perché la strada da percorrere insieme alla mia famiglia rendeva ancora più emozionante l’arrivo in quell’isola che, anno dopo anno, racconti dopo racconti, sentivo appartenermi sempre di più.
Lo Stretto di Messina appariva, alle prime luci dell’alba, ammaliante come un miraggio. Appena lo intravvedevamo da Villa San Giovanni, il volto di mio padre cambiava, si riempiva di smorfie simili a sorrisi e lo invadeva un insolito senso di serenità: quello di chi sente che sta per tornare a casa. Il traghetto e la sua lentezza, noncurante dei capricci di Scilla e Cariddi, ci permettevano di prendere tutto il tempo di cui avevamo bisogno per graduare il trapasso, per poterci immergere completamente in una realtà fatta di suoni, profumi e colori ogni volta misteriosamente diversi.
E mentre noi eravamo intenti a goderci i contorni di quella costa sempre più vicina, mio padre credo ripetesse dentro di sé, come un antico mantra, il suono della sua vecchia “parlata”. Avrebbe usato di nuovo la lingua della sua giovinezza per rassicurare sua madre, mia nonna, che da lì non se n’era mai andato per davvero.
La Madonna, in piedi nello Stretto, ci dava come sempre il suo benvenuto in latino, che mio padre smise di tradurmi quando anch’io, come lui, tempo prima, divenni ginnasiale. Mentre Colapesce continuava a sorreggere sott’acqua lei e la più malandata delle tre colonne su cui poggiava quell’isola incantata, che profuma tutto l’anno di zagare e di zolfo e si specchia di continuo in un mare colore del vino.
Mentre macinava chilometri su chilometri, mio padre costruiva con le parole castelli per fate in quella che per noi era la terra di mezzo, la Calabria. “Cacche” di giganti riemerse dalle profondità marine di quella regione altrettanto magica, che a tutto il resto del mondo dovevano mostrarsi per quello che in verità erano: grandi e “inutili” scogli. Ma in quel viaggio papà ci mostrava quelle pietre cotte dal sale e dal sole per come ogni bambino vorrebbe vedere tutte le cose del mondo: incantate.
E poi lo sbarco, che risuonava di ferro e di roccia e sapeva di ritorno. Il rumore dell’attracco era il segnale di partenza per tutti i conducenti delle auto imbarcate, parcheggiate nel piano “terra” del traghetto come nel ventre di una immensa balena. Ci si lasciava la Madonna e “il continente” alle spalle e tutti si correva verso la macchina. E, come un sipario, si alzava la prua, mostrando finalmente la terra ferma: «Siamo a casa!», mio padre sospirava e schiacciava più a fondo l’acceleratore, pregustando cassate, cannoli, arancini, panelle, cacocciuli, tuma fresca e stigghiola.
La strada da Messina a Caltanissetta, nostra prima e ultima meta, era un’esplosione di colori, alternata a monotone distese di terra dove anche i fiumi abbandonavano il proprio letto. Messina-Catania-il vulcano Etna e poi Enna. Costeggiandola, mi veniva in mente ogni volta la montagna squadrata, fatta di purè di patate, del film di Spielberg: “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Lo avrò guardato almeno mille volte con mio padre. Quando sentivo rimbombare nella mia testa quelle cinque note che servivano a comunicare con gli alieni, non facevo in tempo a svegliarmi che “Il Giornale di Sicilia”, nella lucentezza di una grande insegna, posta proprio sopra l’ultima galleria, dedicata al santo che porta il mio nome, ci dava il benvenuto a Caltanissetta. Avevo imparato ad amare ogni piccolo dettaglio di quel viaggio, di quei racconti, che poi ho tatuato sulla mia pelle come ricordi indelebili di un tempo che ormai non c’è più.
La Sicilia che ho vissuto aveva nel viaggio i colori e gli odori di una fiaba: in tutto il resto, la verità di una terra che ancora oggi sento mia, fino in fondo. Ogni volta che ci torno, aggiungo la musica dei Negramaro a questo viaggio e mio padre torna a vivere in mezzo a noi per raccontare ai miei compagni tutte quelle storie di una vita incantata.
Messina, raccontaci una nuova fiaba, bella come le storie del tuo orologio astronomico! Messina, aspettaci, stiamo arrivando!"

 

 

 

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