Sarebbe certamente il sogno di qualsiasi fan: seguire ogni concerto di Claudio Baglioni. Ma quest’impossibile impresa avrebbe un senso speciale per lo spettacolo «Dodici Note Solo bis» che il Divo Claudio (come chiamarlo, senza che sia riduttivo? Cantautore? Artista? Musicista? Creatore delle colonne sonore di alcuni dei momenti più belli di milioni di adolescenze e non solo?) sta portando in giro per decine di città italiane, in un tour partito il 6 novembre e che ha già toccato – come sempre in sold out trasformati in trionfi – Cosenza, Catanzaro e Reggio, Palermo, Messina, Catania e approderà ad Agrigento e Trapani per poi risalire l’Italia: 72 date, tutte uniche, e solo in teatri lirici e di tradizione, così come era stato per il primo “giro”, cominciato nel 2021. «Vado a cercarmi il pubblico città per città godendomi la meraviglia dei teatri all'italiana», ha detto Baglioni, e quella stessa meraviglia la porta con sé, la fa crescere ogni sera. Perché questo è davvero uno spettacolo che, più d’ogni altro, ogni sera si ricrea, con una scaletta un poco diversa, un percorso diverso tra emozioni e ricordi. Lo ha detto lui, che – strafighissimo come sempre, coi capelli d’argento e lo smoking che sottolinea la figura atletica – molto ha parlato col pubblico, confidenziale come un vecchio amico (persino quando ha dovuto, col suo garbo consueto, riprendere chi continuava a bersagliarlo di flash, la cosa che più disturba e irrita gli artisti sul palco), passeggiando sul palcoscenico davanti ai suoi tre strumenti: «Ho preso un pianoforte e l’ho diviso in tre: un piano “classico” acustico, uno elettrico, uno digitale». Tre macchine da suono, anzi tre macchine del tempo. E non perché, banalmente, rappresentano altrettante tecnologie, ma perché ciascuna «ha un’anima diversa». Lo diceva muovendocisi attorno, in questo spettacolo senza scenografia che non fossero le luci e le ombre, e quello strano modo del tempo di rapprendersi, scivolare all’indietro, gonfiarsi ed esplodere nel coro di centinaia di voci. È un teatro molto grande, il Vittorio Emanuele di Messina, ed era stracolmo fino al soffitto, lì dove il Colapesce di Guttuso compie il suo volo a capofitto nel mare turchino in mezzo alle sirene, eppure è diventato un luogo intimo, in cui Claudio Baglioni poteva raccontarsi e raccontarci, «come se il tetto non ci fosse e fossimo in un cortile, in cui radunare e far incontrare le persone, sorprendendole… a mani nude»: un luogo altro e prodigioso, in una condivisione intima che faceva sparire palcoscenico e platea e palchi e ci trasformava in un cerchio magico, una comunità che scambiava emozioni, pezzi di cuore e abbracci («Tutti abbiamo bisogno di raccontarci, di un abbraccio che ci contenga»), e tempo («Che è la cosa più preziosa da avere, da offrire», diceva offrendoci il suo, in musica, e ringraziandoci per il nostro). Un percorso arduo assai, per chiunque non avesse alle spalle la storia di Claudio Baglioni, i suoi 50 anni di carriera, i suoi 38 album e 60 milioni di dischi venduti, le sue 350 canzoni, buona parte delle quali sono patrimonio condiviso di milioni di persone; chi non avesse la sua qualità di musicista sopraffino, di fondista del palcoscenico, capace di stare a suo agio in mezzo a megaproduzioni kolossal con decine di musicisti, coristi e ballerini e in concerti “intimi” dentro quelle arche del suono e della parola che sono i teatri. Un percorso che cambia ogni sera, in queste serate uniche, fortemente volute dopo la pausa di vuoto e di silenzio della pandemia. Un percorso in cui ha potuto inserire anche canzoni diverse dalle sue decine di memorabili hit, canzoni di “seconda fila” care al suo cuore. Che poi – lo ha spiegato, lo sappiamo – la “scaletta perfetta” non esiste: mancherà sempre un capitolo, un accento, il riverbero d’un ricordo. Lui lo ha detto subito, «Io sono qui», proprio lui, «Io dal mare», e tu, tu pubblico adorante, «Lascia che sia», perché, «Come ti dirò», sono «Un uomo di varie età», ma sempre con un cuore e «Dieci dita», per combinare e ricombinare «Dodici note», e sempre «Con tutto l’amore che posso», e «Tutto in un abbraccio», in queste «Notti» di ricordi liquidi come «Pioggia blu», come «Acqua dalla luna», perché il suono del tempo è liquido e scorre al contrario, e quei «Mille giorni di te e di me» sono molti più di mille, e sono suoi, del Divo Claudio, e nostri, dei noi di ogni età (nel senso che possiamo avercele tutte, mentre lo ascoltiamo ripercorrere la sua e la nostra storia, da «Questo piccolo grande amore» a oggi, anzi a domani, come scorrendo «Fotografie» alla rinfusa, sempre giovani, mai come «I vecchi», volando con la fantasia come facevamo allora, guardando i «Poster» nella cameretta o sui muri delle città). Pause? Nessuna, per tre ore buone, sempre in scena, con l’anima sui polpastrelli (scherzando, come fosse… uno spot, ha suonato una “E adesso la pubblicità”, impietoso e delicatissimo ritratto d’una famiglia-tipo degli anni 80, più ritmica e tesa del solito, e poi ci ha chiesto: «Bene, vi siete riposati?». No, perché ci siamo ricordati come eravamo, come sapeva raccontarci). Ci ha portati in giro dagli anni Settanta a ieri, a oggi, in un andirivieni che gli serviva «a ri-incollare i fogli del calendario, anche alla rinfusa», tanto il tempo è liquido e circolare, si avvolge e si stende, e la musica miracolosamente lo addomestica. E allora, assieme a lui, capivamo che l’amore che aveva sempre cantato era solo una delle forme del tempo, una delle domande, forse un abbozzo di risposta, e dentro c’è sempre tutta la vita che scorre, tutta la strada. Così, quando, richiamato in scena da un applauso interminabile e da mille voci che lo invocavano, si è riseduto al piano (quello acustico, poi quello digitale: tutti i Claudio Baglioni assieme) e ci ha regalato un lungo medley, la risposta ce la siamo data tutti assieme, cantando con lui e per lui (che generosamente, qui a lì, ci lasciava cantare la sua musica, e suonava per noi con passione), perché, – lo abbiamo imparato da lui, con lui – “Strada facendo” “La vita è adesso”. (foto Enrico Di Giacomo)