I mortaretti. I coriandoli sparati dall’alto, tutti i colori del cielo e della terra. L’urlo potente e liberatorio. E si parte... «Viva Maria», «Viva Maria». Le mani si intrecciano, si aggrappano alla corda, i piedi scivolano, le gambe si sollevano, il fiume si fa impetuoso, corre come un torrente di montagna, o un vascello sospinto dagli spiriti invisibili del vento. Oscilla, la “machina”, sembra tremare, si assesta, poi riprende la sua corsa. E a volte viene sangue alle mani, per la forza che devi metterci, a volte rischi di cadere e di essere travolto, perché è tutto un gioco di equilibri, all’interno di quelle corde, e vogatori e timonieri devono rispondere alle leggi del “mare”, dove ogni piccolo errore può essere fatale. Ma tu già lo sai che tutto andrà bene, che la “nave” approderà nel suo porto tranquillo, anche dopo l’ultima “scasata”, l’ultimo passaggio in acque perigliose, l’ultima sfida alle leggi di attrazione e di gravità, l’ultimo grido, prima dell’arrivo. Tu sei uno, e il popolo, quel popolo, è fatto di uno più uno più uno, fino ad arrivare a migliaia, e poi a cento-centocinquanta mila. Puoi essere il giudice che spara sentenze, puoi essere il curioso passato lì per caso, puoi essere l’ateo, il mangiapreti, il bestemmiatore, puoi essere il ladro, l’affiliato ai clan, puoi essere l’uomo che cammina sui pezzi di vetro (come cantava De Gregori), il santo a piedi a nudi, il membro del Comitato, puoi essere tutti e nessuno nello stesso preciso momento. Perché lì, quando passa la Vara, quando tutto il mondo ti gira intorno come un astro impazzito, è proprio lì che tutto si ferma, all’improvviso. E resti solo tu, e tu, e tu, e tu, e scopri di un essere un popolo. Ecco, avremmo voluto scrivere questo oggi. Vi avremmo voluto raccontare quello spettacolo che è sempre lo stesso e sempre cambia, avremmo tentato di cogliere la minima parte di tutte le emozioni, le sensazioni, le paure, il sudore, la selva oscura di mani, le luci degli sguardi, lo sfrigolio dei corpi a contatto con il fuoco della passione, dell’autentica, genuina, sincera fede cristiana o di un pagano slancio vitale che fa della statua dell’Assunta un feticcio, come quando Coribanti e Baccanti portavano in corteo Dioniso, il dio dell’ebbrezza. Avremmo voluto dar voce a chi la Vara la tira da una vita e a chi si cimenta per la prima volta. Al solito gruppo, entusiasta e sorridente, di giovani filippini e cingalesi, ormai più messinesi di tanti messinesi, che dimostra come il senso d’identità prescinde da tutto e che solo una comunità accogliente può sopravvivere, perché chi alza i muri alla fine è destinato all’estinzione. E vi avremmo raccontato della “girata” di via Primo Settembre, della capacità miracolosa di chi guida la “machina” nel prevedere ogni mossa, nel contare i centimetri, le distanze, quel gioco puramente matematico, incarnato però da migliaia di persone tutte concentrate in pochi metri quadri. Avremmo scritto «è andato tutto bene» e le telecamere della “nostra” Rtp avrebbero immortalato quel momento, così come tutti gli altri passaggi, trasformando la cronaca di una processione in Storia. Una storia di sentimenti e di tradimenti, di buone volontà e di promesse poi difficili, anzi impossibili da mantenere, perché il popolo è fatto così, perché sei tu, e tu, e tu, e tu, e quando si torna a casa, si torna a essere quello che si è, nella vita, nel lavoro, nei rapporti personali, in quella che chiamiamo società. Avremmo voluto tanto aprire il nostro giornale con uno dei soliti titoli, “è il giorno della Vara”, “Messina si mette in cammino”, “Il giorno dell’identità”. Ma oggi c’è una battaglia ancor più importante da combattere e da vincere. E lo si deve fare tutti insieme. Come se fossimo aggrappati alle corde della “machina” dell’Assunta. Per tornare, poi, speriamo fra un anno, a raccontarci tutto quello che l’anno scorso e quest’anno non ci siamo detti, che ci siamo persi.