“Antonello. Un nome che si impone con la urgenza delle grandi individualità, quando spicca a tal punto dalla storia della cultura; ma non per astrarne, anzi per esaltarla a un livello ancora sconosciuto. Una grandezza che spaura…”. È tutta in queste poche e rapite parole del grande critico d’arte Roberto Longhi e in particolare in quello “spaura” la misura assoluta del genio di Antonello da Messina e lo sgomento che coglie studiosi e semplici cultori dell’arte di fronte al fervore pittorico di quello che è ritenuto uno dei maestri assoluti del Quattrocento.
Nel corso dell’ultima parte del Novecento numerose sono state le mostre che si sono susseguite in Italia in onore di Antonello, a dimostrazione di un interesse critico molto forte attorno alla sua opera in generale e ad alcuni dipinti in particolare circa la loro attribuzione. Come nel caso del San Zosimo di Siracusa, protagonista della mostra voluta a Napoli da Pierluigi Leone de Castris, che così tanto successo ha ottenuto. Sicuramente la mostra più importante è stata quella allestita nel 2006 alle Scuderie del Quirinale, che ebbe l’indubbio merito di mettere insieme, cosa mai accaduta prima, poco meno di 40 opere delle 45 che vengono attribuite al maestro con una certa sicurezza. A cui hanno fatto seguito quelle organizzate nel 2013 al Mart di Rovereto, a Palazzo Abatellis nel 2018, trasferita l’anno successivo al Palazzo Reale di Milano.
Ma quella da cui prese il via la ricognizione critica più importante e scientificamente rigorosa fu quella di Messina del 1953, Antonello e la pittura del ’400 in Sicilia, di cui quest’anno ricorre il settantesimo anniversario. Una mostra il cui clamore non si è mai spento non solo nel mondo della storia dell’arte, ma anche in quello degli allestimenti e della storia della città peloritana. E questo principalmente per tre ragioni. La prima è che la mostra ebbe l’indubbio merito di mettere insieme il maggior numero di opere di Antonello e della pittura siciliana. La seconda è che essa è passata alla storia per le ardite soluzioni architettoniche frutto dell’estro visionario di Carlo Scarpa. La terza è che fece balzare Messina sulla ribalta internazionale nel decennio successivo alla guerra, che per la città fu di rinascita dopo il terremoto e la guerra.
La mostra. Il racconto di essa comincia nel 1949, ma si definisce nel 1951. Artefici sono il sindaco Carmelo Fortino e Salvatore Pugliatti, che assume la guida del Comitato esecutivo, quindi viene costituita una Commissione internazionale che ha il compito di scegliere le opere presieduta da Giuseppe Fiocco, docente di Storia dell’arte a Padova. Ordinatori della mostra Giorgio Vigni, soprintendente alle Gallerie e opere d’arte della Sicilia, e il famoso critico d’arte Giovanni Carandente. Il noto storico dell’arte Stefano Bottari, tra i primi a volere l’evento, abbandonò a pochi giorni dall’inaugurazione per contrasti con Giorgio Vigni.
Scartata subito l’idea di tenerla nel Museo nazionale, ancora in condizioni fatiscenti, si optò - e mai scelta fu più felice specie sul piano simbolico -, per Palazzo Zanca, che venne trasformato dall’uragano Carlo Scarpa in un contenitore delle meraviglie, di cui i testi di design e architettura continuano a trattare diffusamente ancora oggi.
A rendere ancora più significativa la mostra si pensò di esporre insieme ai dipinti di Antonello una raccolta di opere del Quattrocento siciliano e alcune del Trecento. E questo, scrive Fiocco nell’introduzione “per renderla più evidente, più staccata e più alta, tutta raggiunta nella solitudine individuale del genio”.
Questa scelta fu quanto mai provvidenziale perché condusse, letteralmente, al salvataggio di decine e decine di opere ridotte in uno stato pietoso. Venne deciso, infatti, come si legge nel catalogo della Mostra, “un vasto e decisivo intervento di restauro”, che venne effettuato nei laboratori approntati a Palermo, Catania e Messina, dove, in particolare, si trasferì per parecchi mesi tutto il personale tecnico dell’Istituto centrale del restauro di Roma, grazie anche alla disponibilità del direttore e famoso storico dell’arte Cesare Brandi.
La Mostra venne inaugurata in pompa magna il 30 marzo e si chiuse il 31 agosto dello stesso anno e non già il 30 giugno, come previsto, per l’enorme successo che ebbe, avendo portato in riva allo Stretto una folla enorme di appassionati, ma anche di studiosi e autorità. A inaugurarla il ministro dell’Istruzione Antonio Segni e il presidente della Regione Franco Restivo. A sottolineare l’importanza dell’avvenimento le scuole rimasero chiuse.
Le opere esposte furono ben 142: 18 quelle di Antonello, 9 quelle attribuite, 12 le opere che avevano rapporti con lui. Il resto, ben 103, sono di artisti e autori di opere del Quattrocento siciliano. Tra le 18 di Antonello le tre tavolette palermitane (San Gerolamo, San Gregorio e Sant’Agostino) il cui restauro aveva fugato ogni dubbio circa l’attribuzione al genio peloritano. Tra i prestiti negati il Condottiero del Louvre e i dipinti custoditi nella National Gallery di Londra, tra cui il cosiddetto Autoritratto con il berretto rosso. Centotré i dipinti dedicati alla pittura siciliana del Quattrocento, tra cui spiccava la sezione “La pittura a Messina dopo Antonello”.
L’allestimento di Carlo Scarpa. Ancora oggi la Mostra del 1953 a Messina suscita, come dicevamo, clamore per quello che l’architetto veneziano Scarpa riuscì a concepire e realizzare. A coinvolgerlo fu Roberto Calandra, facoltoso architetto e responsabile del Comitato per l’allestimento. Vide come Scarpa aveva allestito a Venezia la mostra su Toulouse-Lautrec e ne rimase folgorato. Lo contattò e gli propose di partecipare all’allestimento, anche se non avrebbe avuto alcuna retribuzione, ma solo un rimborso spese. Accettò e poco dopo il comitato venne esautorato. A occuparsi dell’allestimento sarebbero stati solo lui e Calandra. Mai incontro fu più fortunato, dal momento che i due diedero vita a una collaborazione lunga e proficua. Scarpa visitò Palazzo Zanca e non si lasciò scoraggiare dall’austerità dell’edificio e dai suoi rivestimenti marmorei, il suo progetto infatti superava e annullava tutti i problemi. Decise infatti di riconfigurare gli spazi e quindi stravolgere dal punto di vista visivo le 24 sale che avrebbero ospitato le opere, rivestendole con il cosiddetto “cencio di nonna”, cioè il calicot plissettato. Il massimo lo raggiunse, come scrive Gioacchino Barbera, già direttore del Museo Regionale di Messina, con la sala dedicata ai capolavori di Antonello, in cui le scelte dell’architetto esaltarono al meglio i capolavori antonelliani, anche grazie alla collocazione che ne favoriva una corretta un’appropriata visione. Tutto questo lancia per gli anni a venire Scarpa a livello internazionale tra i più geniali allestitori di mostre e la Mostra di Messina diventa un esempio per tutto il mondo.
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