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Pedro Cano, ovvero l’anima dei luoghi. A Taormina una mostra indispensabile FOTO | VIDEO

«Maestro, quale città invisibile di Calvino sarebbe, Taormina?». Ci pensa un attimo, il bel volto latino appena increspato, e mi dice col suo italiano languido: «Una delle città e gli scambi, senza dubbio». E così ci sono tutti: Pedro Cano, Italo Calvino, Taormina, tutte le terre e le città invisibili che il maestro spagnolo insegue per il mondo e dipinge, caparbiamente, con l’arte immateriale dell’acquerello. Ci circondano, dentro le sale di Palazzo Ciampoli, sotto forma di sedici grandi opere che ritraggono i più fascinosi teatri di pietra del Mediterraneo, dall’Italia alla Giordania, dalla Spagna all'Egitto, la Grecia, la Turchia, la Siria. La mostra – promossa dal Parco Naxos Taormina e organizzata dalla Fundaciòn Pedro Cano, su progetto di Giorgio Pellegrini – si chiama, semplicemente, «Teatros».

Lo fa spesso, Pedro Cano: inventare, seguire, descrivere serie. Di teatri, di porte, di figure, di giardini, di città. Come se ogni volta componesse inventari dell’universo, a uso di qualche divinità catalogatrice, come potrebbe averla immaginata Borges. Come se ogni volta provasse a trovare la sostanza comune, attraverso una minuziosa descrizione delle differenze, oppure, al contrario, deducesse dall’unica forma tutto il catalogo delle delle varietà e differenze: l’operazione che aveva fatto, in letteratura, Italo Calvino con le sue “Città invisibili”, che non a caso Pedro Cano ha magnificamente illustrato (o completato, o tradotto, fate voi). E lo fa con lo strumento meno chirurgico eppure più sensibile alla variazioni minime della luce, della temperatura, della superficie delle cose: l’acquarello. Che, risaputamente, trova e mostra l’anima dei luoghi e delle creature.

Pedro Cano incarna, tra tanti, un altro paradosso: l’artista che gira il mondo, ne visita l’immensa articolazione delle forme, delle luci, delle espressioni, e la riconduce a sé ogni volta, come se il mondo si ricreasse solo per lui, nel suo laboratorio intimo. Come se fosse il mondo a visitarlo. Ha girato il mondo, il maestro spagnolo – classe ‘44, della regione della Murcia ma poi perfetto cosmopolita, per alcuni anni anche residente in Italia – per catalogarne così perfettamente luci e ombre, e questa rassegna di teatri ci consegna, più d’ogni altra, l’estensione del suo viaggiare.

Girare con lui nelle sale di Palazzo Ciampoli riempite fino all’orlo dalla luce marina del mattino – dopo l’intensa presentazione della mostra, a cura della direttrice del Parco Archeologico Gabriella Tigano e del sindaco di Taormina Mario Bolognari – , davanti ai suoi acquerelli, è un’esperienza mistica. Perché ci racconta ogni singolo teatro ricordando l’emozione con cui lo vide, lo disegnò, lo fissò nella sua memoria d’artista: quella volta coi suoi fratelli nel teatro turco di Aspendo, quella volta che il mare lo sorprese, nella quinta mozzafiato della libica Sabratha, apparendo da dietro il proscenio, quella volta che trovò solo poche colonne, e attorno una città che premeva coi suoi rumori e le sue forme. Perché – e qui lo comprendiamo ascoltandolo – ogni volta Pedro Cano dipinge non solo i luoghi, ma il momento, che è assieme ciò che fugge e anche ciò che è, assoluto: ogni volta, come disse un poeta, è il cuore del tempo.

Ogni volta dipinge la vita dei teatri, Pedro Cano, la loro persistenza e la loro caducità: indica una palma, nel teatro libico di Apollonia, «Ora non c’è più», dice. Ma la palma è lì, svetta nel bruno rossastro del tempo, “salvata” per miracolo d’arte dal naufragio del divenire, davanti a noi. S’addolora, il maestro, per i teatri «senza scena»: quelli di cui sono rimasti frammenti, quelli assediati dal presente, quelli che non sono più usati come teatri. S’entusiasma, per quelli dove ancora vanno in scena spettacoli, si compie quella magia dello “scambio”: la parola si fa gesto, il gesto si fa dramma, il luogo si fa altrove, dovunque. Si scambiano l’individuo e l’universo, come da sempre a teatro (come da sempre nell’arte). E in quell’alchimia degli scambi si situano le sue opere.

Di “scambio” come contaminazione, e fecondità delle differenze che si mescolano, nella cultura del Mediterraneo ha parlato nella sua bella introduzione il sindaco Bolognari (ci sono sindaci che fanno la differenza, e lui è uno di quelli). Il maestro Cano fa un altro nome prezioso, per il Mediterraneo come luogo culturale e luogo dell’anima: Predrag Matvejević, lo scrittore croato scomparso nel 2017, autore di quel «Breviario Mediterraneo» che è mappa e vademecum e romanzo e saggio e libro di preghiere per qualsiasi “cittadino mediterraneo”.

Parliamo brevemente di lui col Maestro Cano, gli dico che il Breviario è stato ripubblicato, ne è felice. Aggiunge: «Mi manca, mi sento orfano». In effetti è evidente quanto le sue immagini siano nutrite di parole, di letterature, di saggi. Come la sua sia, anche, un’opera di traduzione. Opera di scambio, direbbe il Calvino delle città invisibili. Opera mediterranea, direbbe Matvejević.

La sosta più lunga, nel percorso della mostra, è davanti al teatro di Taormina: quello che i suoi allievi hanno cercato di carpire, tradurre, dipingere nei due giorni di “lezione” taorminese gratuita (e sarebbe bella una mostra nella mostra, di quegli sguardi dentro lo sguardo del Maestro). D’altronde, «Taormina è tutta narrazione» aveva detto durante la presentazione il curatore della mostra Giorgio Pellegrini, e di narrazioni si nutre. Sorride, Pedro Cano: l’operazione più ardua, in quell’acquerello, è stata escludere l’Etna, il cielo, il mare. La bellezza enorme che si somma alla bellezza del teatro. E invece lui voleva isolarlo, il teatro, nello spazio, nel tempo, nell’istante assoluto dell’acquerello. Ed eccolo infatti scuro, color terra, color memoria. Con la forza della sua pietra, della sua storia, come se fosse alle fondamenta stesse dell’isola. Mozzafiato, ma diverso: isolato e unico, splendente senza splendori, luminoso senza bianco, senza azzurro. Potente e tellurico.

Ogni teatro dei sedici raffigurati – trent’anni di viaggi, di appunti, di disegni – contiene un’emozione del genere che si schiude, un’epifania che si rinnova, e ciò rende gli acquerelli del Maestro in qualche modo inconsumabili, infiniti. Come se visibile e invisibile lottassero, nel tempo, davanti a noi.
Chi vince, maestro? Sorride, non ha altra risposta che non sia il suo viaggiare, il suo restare fermo, il suo cercare i luoghi, i volti, le forme, il suo essere trovato da loro.
Andate a visitare questa mostra, è in qualche modo indispensabile.

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