Quale funzione può avere il ritratto di un regista teatrale texano ottantantunenne che ha lavorato per molti anni in Italia? E’ questa la domanda che ha posto il giornalista Franco Cicero nell’introdurre il critico teatrale Gigi Giacobbe alla presentazione della sua ultima fatica, “Bob Wilson in Italia”, edito dalla Cuepress, sabato scorso nello spazio della strada S. Giacomo, ospiti nel dehor della Cucchiara. La risposta è meno ovvia di quanto si possa pensare, se, come ricordava lo stesso Cicero, ci si scandalizza per un rapper milanese, Fedez, che ignora Strehler. Semmai la domanda dovrebbe essere, più semplicemente, cosa si è fatto perché Fedez conoscesse Strehler? Ecco allora che il lavoro di Gigi Giacobbe, un excursus trentennale attraverso le produzioni di Bob Wilson in Italia, seguite pedissequamente e coronate da riflessioni, articoli e interviste, trova una sua collocazione importantissima nella costruzione di una memoria che ai nostri giovani manca. Perché Wilson, come Strehler, non si studia a scuola. Il ruolo, dunque, di “Bob Wilson in Italia” è quello di riempire un vacuum nella storia teatrale e culturale, perché finora in Italia ci si era occupati poco del grande regista, o perlomeno c’è stato un interesse di nicchia, ma l’intento assume anche una forte connotazione comunicativa grazie a Gigi Giacobbe che non si è mai risparmiato nella divulgazione culturale a tutto tondo, e in particolare in quella teatrale, nel corso della sua esperienza di critico teatrale. Il dialogo con Wilson, sempre mediato dagli interpreti occasionali, dando luogo a una serie di aneddoti gustosamente raccontati da Giacobbe, sembra quasi intimo e soprattutto si allarga sempre su un orizzonte che da intimista diventa universale, toccando la sfera privata (le preferenze e i gusti del regista, le sue esperienze, i suoi pensieri) per arrivare alla sua idea di teatro, alla sua visone dell’arte, alle commistioni fra i generi teatrali. Tutto quel che Giacobbe racconta, vive attraverso le righe scritte, forte di immagini, di suoni, di colori raccontati da Wilson, vissuti da Giacobbe, critico ma, soprattutto, spettatore. E, d’altra parte, dell’importanza di vivere il palcoscenico, sopra, dietro e non solo davanti per poter capire appieno il teatro, è convinto anche il prof. Dario Tomasello, intervenuto alla presentazione e promotore della pubblicazione proprio perché consapevole della peculiarità dello scritto e della rilevanza del contenuto. Per Tomasello il teatro è presenza, molto più di quanto possano prevedere altre forme d’arte come il cinema, la letteratura, la musica e da docente ai suoi universitari consiglia sempre di partecipare attivamente (e quindi non solo da spettatori passivi) alla messa in scena di uno spettacolo. Il teatro, per dirla con Wilson, è il compendio di tutte le arti. A teatro coesistono arte, architettura, musica, letteratura e nell’ultimo secolo anche fotografia e cinema. Non stupisce dunque che il militante Giacobbe riesca a catturare preziose informazioni dal regista non prima o dopo, ma durante la messa in scena, spesso nell’intervallo. Quasi ad avvalorare la necessità di un discorso in itinere che è dentro la messa in scena. Anche la presentazione del libro, affatto noiosa, è stata intervallata dalla lettura di alcune pagine da parte dell’attore Gianfranco Quero, perché la discussione – come in una mise-en-scène – s’intrecciasse ancor di più col teatro.