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Blas Roca Rey: in scena rivivo il dramma di Van Gogh genio incompreso

E’ andato in scena  il 30 e 31 agosto “Le lettere a Theo” di e con Blas Roca Rey  per la l’apertura della seconda tranche della rassegna teatrale  “Il Cortile”. Lo spettacolo ha come struttura drammaturgica  una selezione di alcune lettere  che  Vincent Van Gogh ha spedito  al fratello  Theo; su questo carteggio  l’autore ha  rimaneggiato, fuso, in un unicum coerente, efficace e, davvero, lirico, le parole che hanno scandito,  descritto e sostenuto  la vita del genio olandese.

Blas, ci racconti il tuo Vincent Van Gogh?  

"Questa, senza dubbio, è la cosa più bella che abbia mai fatto in 41 anni di lavoro - spiega Blas Roca Rey -  la cosa che mi emoziona di più,  che mi corrisponde  di più e che mi strazia di più.  Persino quando faccio  la prova di memoria dello spettacolo mi commuovo da solo;  ormai è parte di me.  Il mio van Gogh è un uomo che ha avuto un  rapporto straordinario  con l’arte;  ho voluto soprattutto evidenziare la  “disgrazia “di essere così avanti , di essere  incompreso; elementi  miscelati alla sua follia, un pazzia particolare, perché lui  non era “il pazzo del villaggio”,  era una persona che ha fatto di tutto per essere accettato dal mondo. Il rigetto da parte della società quanto  gli bruciava, lui  si rendeva conto della sua condizione che, in parte, dipendeva dalla sua stranezza, dai suoi cambi di umore, dalla sua irritabilità e malinconia. Aveva così coscienza del suo stato da  farsi internare anche volontariamente.  Il “mio” Vincent viene fuori dal rapporto con Theo, il fratello  minore che per lui  era tutto: unico suo riferimento,  sostegno  affettivo ed economico.   Io lo rappresento con tutto me stesso e in aderenza a come sto io; è un Vincent diverso a seconda della mia rabbia o delle mie  emozioni".

Per questo ne hai curato pure la regia?

"Sì, questa cosa la dovevo fare io. Ho sviluppato questo spettacolo in sette giorni, di getto, mi è fiorito tra le mani, in un modo incredibile, non mi era mai successo. Io dovevo interpretarlo e dirigerlo! Questo spettacolo è una mia costola e, di più, parte del mio cuore".

Come si fa a leggere una storia di un uomo che viveva l’arte in modo così assoluto?

"Quando si costruisce un personaggio, l’aderenza alla realtà è fondamentale, ma io non costruisco dall’esterno qualcosa, attingo al mio  archivio sterminato che ha tanti  cassettini e ogni volta cerco il cassettino che è più simile alla cosa che devo fare, cerco di  sviluppare quel contenuto, ma a partire da ciò che è dentro di me, che io ho vissuto, non ci sono altre strade per me per  rendere credibile un personaggio".

Essenziale il ruolo della musica in questa messa in scena,  abbiamo  perciò raggiunto anche il maestro Tristaino.

Come dialoga la musica con la drammaturgia, il suono con la parola?

"La musica  - afferma Tristano - qui non vuole  sottolineare qualcosa che avviene nel dramma, vuole viaggiare  su un piano parallelo e quasi futuristico, rispetto  a quello che il momento della lettera racconta,  eliminando  qualsiasi effetto didascalico. Non vogliamo trovare la musiche della sua epoca;  in alcuni momenti improvviserò, in altri eseguirò repertorio di autori classici o contemporanei da me rimaneggiati.  Il suono vuole suggerire all’ascoltatore il sogno, il ritmo di una pennellata, il colore".

E allora come è il tuo Vincent?  

"Ho voluto dire del suo lato folle, geniale, con il suono espressivo interiore, che Blas racconta con il tratto e io con il soffio.  Quell’elemento creativo, anche irrazionale, non prevedibile, quell’afflato suo, diverso e unico. Anche per me c’è un grande coinvolgimento emotivo, il nostro lavoro non è meccanico in scena, ma un sentire comune che l’uno suggerisce e suscita nell’altro in modo sempre nuovo".

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