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Tindaro Granata, l'attore messinese esordisce come insegnante al Piccolo di Milano

«Ricodditi ca un cristianu si canusci sulu doppu ca ci manciasti setti sacchi di sali assemi!» (Ricordati che una persona la si conosce solo dopo che ci hai mangiato insieme sette sacchi di sale). Non solo: «Ca annunca!» (ma certamente!), «Comu fu e comu non fu» (Alla fine), «Squagghiari» (Sciogliere) e tanto altro ancora. Dove siamo? Nelle campagne messinesi di Tindari, qualche decennio fa? All’udito sembrerebbe così, in un salto geografico e temporale, che il teatro è sempre capace di fare. E infatti siamo in un teatro, precisamente nella prestigiosa scuola del Piccolo Teatro di Milano, intitolata alla memoria di Luca Ronconi e diretta da Carmelo Rifici (la più prestigiosa d’Italia, Accademia di Roma a parte), dove Tindaro Granata sta facendo il suo esordio quale insegnante.

All’attore, autore e regista messinese (è nato 42 anni fa a Tindari, proprio come dice il suo nome) è stato affidato il progetto “L’autobiografia”, ovvero come trovare una modalità di racconto che parta dai ricordi delle storie di famiglia per narrare la propria vita. Dopo una serie di incontri di preparazione con gli allievi, già svolti, le lezioni vere e proprie, in programma dal 16 novembre al 12 dicembre, causa lockdown inevitabilmente slitteranno. Quelle parole in dialetto messinese che echeggiano nelle “sacre” sedi del Piccolo, lo confesso, colpiscono molto sul piano delle emozioni. Di questo e molto altro abbiamo parlato con Granata.

Perché il dialetto?

«Il percorso che propongo è in due parti. La prima, di confronto con gli allievi, in cui racconto la mia storia attraverso alcune scene del mio monologo autobiografico “Antropolaroid”; la seconda è dedicata al processo di teatralizzazione che ognuno di loro può fare per generare un’opera. Scriveranno il loro monologo e lo metteranno in scena: ho presentato il progetto col titolo “Autori di se stessi”».

Eppure lei ha studiato tanto, ma non ha fatto una vera e propria scuola di teatro.

«È così, eppure sono riuscito a crearmi una carriera da professionista e questo tipo di cammino interessa molto ai giovani perché dopo la scuola ciascuno di loro dovrà capire, da solo, come avviare il proprio percorso nel mondo del lavoro. Il senso di sconforto che talvolta si prova può essere superato se ci si abitua, da subito, ad avere una mente creativa. Il mio compito sarà di accompagnarli in tutte le fasi del percorso, cercando di individuarne i blocchi, le paure, le difficoltà che ogni giovane può avere nella sua crescita artistica. Lo posso dire perché per anni a Roma ho fatto il cameriere e il commesso, mantenendo alta e costante la mia voglia di fare teatro».

“Antropolaroid” è lo spettacolo superpremiato che le ha dato il successo e racconta la sua infanzia insieme con nonni da favola. E che contiene tutte quelle parole in un dialetto diverso da quello, contaminato, di adesso.

«Ho fatto finora 360 repliche in 200 città italiane. Narro la provincia di Messina, quella delle campagne (i miei nonni erano contadini), dal 1925 al 1999, utilizzando anche i racconti della mia bisnonna. Molte delle parole che uso non esistono più, lo sento dai miei nipoti che non le conoscono. Io sono stato fortunato, con i nonni e i loro amici ho conosciuto la “biddizza” di una vita molto libera, fatta anche di sofferenze, necessarie per essere forti e affrontare le esperienze dell’esistenza. Ho assimilato un mondo contadino adesso perduto».

Vuol dire che i giovani di oggi non hanno radici?

«Dico che non le hanno salde, non avviene più la trasmigrazione delle esperienze da una generazione all’altra. Vedo il tema della solitudine odierna dei bambini, mi pare che in casa manchi loro la possibilità di esprimersi. Me ne sono occupato, come anche della pedofilia, in un altro mio spettacolo, “Invidiatemi come io ho invidiato voi” o anche, se vogliamo, in “Geppetto e Geppetto”».

Tutti spettacoli molto premiati (“Geppetto e Geppetto” pure il premio Ubu) e in italiano. Ma gli spettatori del Nord cosa capiscono del dialetto di “Antropoloraid”?

«Tutto e niente. Le singole parole possono non essere comprensibili, ma come mi confermano alla fine di ogni replica il senso di tutto il racconto arriva intatto. Succede in ogni parte d’Italia e al Nord io, comunque, adotto un modo di parlare più lento e meno stretto».

Ripartiamo dell’inizio...

«Sono partito alla volta di Roma con il miraggio di fare cinema ed è lì che ho scoperto il teatro, cominciando a seguire piccoli corsi. Finché non è arrivato il colpo di fortuna».

E le è tornato utile il dialetto.

«Da un corso che frequentavo mi hanno mandato a un provino con Massimo Ranieri il quale cercava un ragazzo che parlasse napoletano per la ripresa di “Pulcinella” di Manlio Santanelli, con la regia di Maurizio Scaparro. Quando ha scoperto che ero siciliano Ranieri, invece di mandarmi via, mi ha detto di recitare qualcosa nel mio dialetto. Allora non avevo un repertorio e mi inventai di proporre il testo di “Lu pisci spada” di Modugno. Così mi ritrovai a fare il coprotagonista con Ranieri. Da lì, a 23 anni (era il 2001) è partita la mia carriera di attore, poi decollata grazie all’incontro con il regista Carmelo Rifici, con cui ho recitato al Piccolo. E poi con il Teatro di Lugano, dal 2016 ogni anno faccio una produzione con loro».

Ma il “pisci spada” è servito ancora...

«Sì, nel 2018, in un progetto del Piccolo Teatro, cui ho partecipato a Stoccarda come drammaturgo col testo “Europa interiore”. In aggiunta ci avevano chiesto un pezzo di 3 minuti che parlasse della nostra Italia e io ho messo in scena le parole di Modugno. Ho interpretato il pescespada maschio, la femmina e i pescatori sulla barca».

E nella “sua” Messina?

«Anni fa mi aveva chiamato Ninni Bruschetta perché voleva che mettessi in scena “Geppetto e Geppetto”, quando avevo appena avuto il premio Ubu. Dopo l’iniziale entusiasmo, però, non l’ho più sentito».

Poi, in questi ultimi anni, a parte gli spettacoli per le scuole e i laboratori e le iniziative per il “Piccolo Shakespeare”, teatro della casa circondariale di Messina, tutto organizzato da Daniela Ursino?

«Ho mandato le schede di tutti i miei spettacoli. Ma non mi ha mai risposto nessuno. Mi piacerebbe molto recitare nel Vittorio Emanuele».

C’è già un suo nuovo testo?

«Si intitola “Dedalo e Icaro” e ha fatto in tempo a debuttare all’Elfo di Milano prima che il Covid bloccasse la tournée. Spero che possa riprendere presto. Qui sono solo autore e ho voluto affrontare il tema di una famiglia con un bambino autistico. Prima di scrivere ho trascorso un mese all’Angsa (Associazione nazionale genitori soggetti autistici) di Novara, un’esperienza importante e significativa».

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