«A Piè, ma ’sto ministro s’é perso paa strada?». «Maestro, non s’è capito. Pare che abbia bucato una ruota e che stia aiutando pure lui la scorta a cambiarla…». Albertone Sordi sgrana gli occhi e accenna a un sorriso che diventa una smorfia: «Aho, annamo bbene!». Il grande attore è seduto in prima fila al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, per la cerimonia di consegna del Premio Internazionale Bonino per la Cultura, che l’omonima Fondazione gli ha assegnato.
Siamo nel giugno del 2000 e Albertone riceverà la targa di Gerardo Sacco che gli sarà consegnata da un parterre de rois di personalità, tra cui il ministro dell’Università Ortensio Zecchino. Arrivato in ritardo all’appuntamento.
Portare Sordi a Messina non è stato facile, specie in quei giorni, in cui cadeva il suo ottantesimo compleanno. Ma il presidente della Fondazione Nino Calarco con un paio di viaggi a Roma, dove lo aveva incontrato, era riuscito a convincerlo, grazie anche ai buoni uffici dell’avv. Ninni Panzera, segretario di Taormina Arte. Per la verità Sordi, monumento del cinema italiano, si era fatto anche convincere dalla lista d’onore dei premiati che lo avevano preceduto: premi Nobel come Buchanan e Kofi Annan, illustri scienziati come Luc Montagnier, straordinari politologi come Ralph Dahrendorf, personaggi del calibro di Riccardo Muti. E così via. Insomma, una compagnia di eccellenze per cui valeva la pena di fare un viaggio nella lontana Messina. E poi, i giovani, laureati, presenti in massa alla cerimonia.
Il Premio gli veniva dato per avere interpretato con i suoi film la storia e il costume dell’Italia del dopoguerra. Era lui, insomma, il prototipo dell’Italiano medio, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, le sue ricchezze e le sue povertà, il suo coraggio e le sue vigliaccherie. Un attore e una filmografia che per i giovani rappresentavano un viaggio nella macchina del tempo. Un viaggio per scoprire come erano stati i loro nonni e i loro padri e da quali traversie nasceva l’opulenza di un’Italia contemporanea che aveva conosciuto tempi grami, in cui l’arte di arrangiarsi era l’unica virtù per restare a galla. Ecco: Alberto Sordi era il nostro Dna.
Sembrava uscito da un’opera di Nietzsche, da quell’umano troppo umano e da quell’aldilà del bene e del male in cui l’uomo è presente contemporaneamente con tutte le sue grandezze e tutte le sue miserie. E ora, questo mito della mia adolescenza, questo mito che aveva fatto sognare milioni di italiani stava là seduto davanti a me, impaziente di saltare sul palcoscenico come un ragazzino prima della premiazione di un concorso scolastico.
Nutrivo grande ammirazione, ma mi faceva anche tanta tenerezza vedere l’eroe dei miei sogni infantili fremere dall’impazienza. Lui che era stato onusto di onori e glorie ben più eclatanti aspettava di ricevere ancora una volta il tributo della folla. Di quella folla che non aveva mai smesso di amarlo. Che lui non smise mai di amare. E io mi permettevo, pure, di scherzarci sopra, un po’ carognescamente, forse un poco... alla Alberto Sordi.
«A Piè, ma non è che poco poco il ministro sta veramente a cambià a rota?». «A posto, Maestro. Stanno per arrivare». E un sorriso smagliante gli dipinse il viso dopo la mia ennesima battuta. D'altronde, ero su di giri. Erano stati tre giorni bellissimi che io avevo passato assieme a Sordi accompagnandolo in giro per la città e raccogliendo tante sue confidenze. S’era mangiato un piattone di spaghetti con le melanzane e io scherzando gli avevo chiesto: «Maestro, meglio il cibo siciliano o quello americano?». E lui, senza alzare la bocca dal piatto, aveva risposto: «Sicilia, Sicilia me te magno...!», come nel film («Maccarone, m'hai provocato e io ti distruggo adesso, maccarone! Io me te magno!»), come quell’ “Americano a Roma” rimasto nel cuore di tutti. Mericoni Nando, presente.
La Fondazione gli organizzò una grande cena di compleanno allo Sporting. E lui fu l’ospite d’onore in tutti i sensi. Ebbe una battuta per tutti e passò di brindisi in brindisi cercando soprattutto la compagnia delle belle donne, e mentre brindava mi faceva pure l’occhiolino, che grande! A tavola raccontò le peripezie accadutegli durante un film girato in Sicilia, quando per avere a disposizione le comparse dovette chiedere aiuto ai potenti del posto. Aggiunse decine di aneddoti su molti altri film girati in Italia e in giro per il mondo, come la genialata dell’amore per Kansas City, il tormentone di Mericoni Nando: «Auanagana... io so’ der Kansassity». Tanto che poi davvero la città di Kansas City gli aveva dato la cittadinanza onoraria.
Secondo me a Messina passò uno dei più bei compleanni della sua vita, circondato dal sincero amore e dall’ammirazione di tutti. Alla fine, al Teatro Vittorio Emanuele arrivò il ministro. Alberto zompò sul palcoscenico prima del tempo. Ma non importa . Lui non si stancava di sbracciarsi e il pubblico in piedi non si stancava di applaudire. Tutti ridevano e qualcuno piangeva. Perché lui era l’Italia.
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