Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatte le storie. Questo vale per tutti, ma per noi che abbiamo il privilegio di stare in un luogo come le rive gemelle dello Stretto è ancora più evidente. Perché le storie, i miti, le parole di cui siamo fatti, quella trama sottile e fitta e antica quanto questo luogo, noi possiamo vederli nascere ogni giorno, a ogni angolo che prende la luce, a ogni colore - cielo ferro sangue vino - che prende il mare, a ogni mutamento prodigioso della distanza tra le sponde. Quando la “rema” cambia, e i due mari che s'incontrano proprio qui, lo Ionio e il Tirreno, si soprappongono, si mescolano, si combattono, noi abbiamo chiarissima l'idea di cosa sia Cariddi, di cosa possa aver ispirato il primo che raccontò di Ulisse, o colui che diede il via alla millenaria catena di storie, tutte intrecciate tra loro, piene di dettagli diversi ma sempre uguali. Noi gente dello Stretto sappiamo con esattezza che tutta questa bellezza è un patrimonio antico e condiviso. Una di noi è Nadia Terranova, la scrittrice messinese che dello Stretto ha fatto un epicentro del suo narrare: nel romanzo con cui è appena entrata nella dodicina del Premio Strega, “Addio Fantasmi” (Einaudi), lo Stretto e la sua luce bianca, Messina e i suoi fantasmi, la sua qualità di città calviniana, mezza invisibile e mezza visibile, mezza inferno e mezza splendore, sono personaggi tra gli altri, e (anche) di questo noi dello Stretto le siamo infinitamente grati. Ora però abbiamo un motivo in più: esce oggi in libreria un volumetto prezioso, che testimonia questo nodo d'affetto e di devozione, ma soprattutto questo limpido riconoscimento della potenza d'un luogo capace di nutrire l'immaginazione, di saziare anche gli spiriti più affamati di bellezza, “Omero è stato qui” (Bompiani ragazzi, pp. 64, euro 10), arricchito dalle belle illustrazioni di Vanna Vinci, una delle più brave fumettiste e illustratrici italiane. Diretto ai più giovani - che peraltro sono stati i primi lettori d'elezione di Nadia, che è grande esperta e fine autrice di letteratura per ragazzi - il libro è in realtà un manuale di navigazione tra i principali miti e le storie dello Stretto, da Colapesce alle Sirene, da Scilla e Cariddi “ragazze pericolose” (il mito più amato e sempre citato da Nadia, la cui scrittura somiglia allo Stretto, così limpido e ingannevole, perché capace di verticali profondità mozzafiato, popolate di misteriose creature del buio) ai giganti messinesi Mata e Grifone, protagonisti del mito fondativo più multirazziale che ci sia. Raccontati con semplicità ma incanto, catturando tutta la luce del fantastico e gli orizzonti favolosi ma riconducendo sempre tutto a queste sponde visibili, all'esperienza reale e quotidiana che possiamo farne: un esercizio di bellezza spiegata ai piccoli. «Lo Stretto è un luogo mitologico per eccellenza - mi dice Nadia - , e mi sono resa conto che non lo avevo ancora raccontato ai più piccoli, ai bambini, che sono quelli che più hanno desiderio, hanno fame, bisogno di miti. I bambini impazziscono per i miti, per me sono stati la fonte primaria di approvvigionamento, e uso questa parola perché mi sono nutrita di miti. E i primi miti di cui mi sono nutrita erano quelli che avevo intorno, anche se non lo sapevo. Quando ho scoperto che la storia delle sirene di Ulisse, che da bambina avevo ascoltato dalla voce incantata e incantevole di mia nonna, era nell'Odissea sono impazzita di gioia. Ho voluto aggiungermi come un anello in questa catena di voci, prevalentemente di donne, che tramandano queste storie del luogo che io amo». D'altronde, è impossibile non raccontare storie: è un modo di stare al mondo, forse di cambiarlo (specie oggi, quando è ancora più importante raccontare per ricordare, riconoscere, ricucire). «Raccontiamo storie - dice Nadia - perché è il nostro modo di stare al mondo e di ingannare la morte, di dirci: esistiamo, siamo esistiti ed è esistito qualcuno prima di noi. E credo che sia un gesto politico raccontare storie. Non c'è bisogno di un contenuto politico: già il fatto di tramandare, di aggiungere, di aggiustare narrazioni è un gesto politico». Raccontare, semplicemente, per fare di un luogo il “tuo” luogo (e questo basterebbe a tranciare ogni chiacchiera sulle “cittadinanze”), per condividere, per battere il dolore e la morte. Sullo Stretto lo facciamo da migliaia di anni.