Una nuova sensibilità, che richiama in particolare chi fa informazione professionale ad una narrazione più coerente nel rappresentare le tante componenti sociali con un linguaggio rispettoso delle diversità. Un linguaggio che sia inclusivo senza essere “escludente”, nella consapevolezza che parità non vuol dire eliminare le differenze, ma valorizzarle, anche esprimendole correttamente con la straordinaria duttilità della lingua italiana: quindi, ad esempio, declinando al femminile le professioni se riferite a una donna, adottando formule sintattiche capaci di includere anche persone non binarie, e di essere rispettose verso i portatori di disabilità o altre caratteristiche specifiche (etniche, religiose). Il corso di formazione giornalistica in Ateneo Il linguaggio di genere e in generale l’uso responsabile delle parole sono stati al centro dell’intenso incontro tenutosi al Polo universitario dell’Annunziata nell’ambito del programma di corsi formativi giornalistici promosso dal Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne assieme alla sezione messinese dell’Associazione della Stampa, e apertosi con il saluto del direttore del Dipartimento prof. Giuseppe Giordano e la moderazione del segretario provinciale del sindacato giornalistico Sergio Magazzù, che - preannunciando i successivi appuntamenti il 3 e 17 maggio e il 16 giugno - ha ringraziato per la collaborazione la collega giornalista della Gazzetta del Sud Gisella Cicciò e la prof.ssa Maria Eugenia Parito, coordinatrice del Corso magistrale di studi in Metodi e linguaggi del giornalismo del Dicam. Presenti anche studentesse e studenti di UNIME GDS Lab Ad approfondire la tematica di grandissima attualità, ripresa anche in altri eventi formativi regionali, sono stati il prof. Fabio Rossi, ordinario di Linguistica italiana al Dicam, e la vicecaposervizio della Gazzetta del Sud Natalia La Rosa, responsabile dell’inserto “giovane” Noi Magazine e di UNIME GDS Lab, il laboratorio studentesco di tecnica giornalistica promosso da Società Editrice Sud e dall’Ateneo, nelle cui attività, coordinate assieme alla prof.ssa Maria Laura Giacobello, il corso di formazione è stato inserito. E infatti in aula magna, accanto a professioniste e professionisti dell’informazione, erano presenti anche studentesse e studenti dei corsi di giornalismo Unime e di altri dipartimenti, interessati alla comunicazione e partecipi di un momento condiviso con chi è già approdato ad un ambito lavorativo che suscita molta curiosità, ma anche consapevolezza delle enormi responsabilità. La responsabilità delle parole Ed è stata quest’ultima una delle parole chiave, assieme a sensibilità e “sostenibilità”, sintattica e sociale, di un linguaggio che dai canali mediatici (i quali soprattutto nell’ambiente digitale permangono stabilmente per la consultazione) si propone all’opinione pubblica - come hanno sottolineato Rossi e La Rosa, in maniera convergente, ciascuno per il proprio ambito di competenza - con funzione “riflettente” e “modellizzante”, cioè fornendo un esempio di linguaggio percepito come corrente e “corretto” e quindi replicabile nella quotidianità. Il prof. Rossi, con un ampio excursus grammaticale, ha dimostrato come sin dal ‘500 non sia mai esistito alcun ostacolo linguistico alla declinazione al femminile, ad esempio, delle professioni espresse con nomi mobili (avvocato-avvocata, prefetto-prefetta, sindaco-sindaca, rettore-rettrice e così via...), esplicitando poi le varie regole sulle diverse categorie dei nomi e sulla variabilità tra maschile e femminile, singolare e plurale. L'uso sociale e il "genere del disprezzo" È stato quindi l’uso sociale, segnato da pregiudizi e stereotipi, a rendere nel tempo prevalente la denominazione al maschile di talune professioni anche se riferite a donne, annullandone l’identità di genere: un “errore di grammatica” come lo ha definito Rossi - e di etica - che però oggi non viene da moltissimi e, purtroppo, anche da moltissime percepito come tale, nella falsa convinzione che il maschile abbia una funzione di genere “neutro” (o di maggiore valenza sociale...) inesistente però nella lingua italiana. Il maschile, invero, ha una funzione di genere “non marcato” cioè prevalente e “inclusivo”, ad esempio nei casi di elencazioni o raggruppamenti, ma anche in questo caso è possibile distinguere (ad esempio tutti e tutte, alunni e alunne) o usare formule più generiche (il gruppo, la classe) che non marcano la forma maschile. Il genere femminile, invece, è divenuto talvolta persino “genere del disprezzo”, come titolò un celebre parere dell'Accademia della Crusca, redatto nel 2020 da Paola Villani, ricostruendo con una gran mole di citazioni il famoso caso di Laura Boldrini, massacrata (“la presidenta”, “la Boldrinessa”) su alcuni giornali e social solo perché chiese di essere definita “la presidente” della Camera, quando ricoprì il mandato 2013-2018, facendo modificare anche le intestazioni ufficiali. Oggi invece, probabilmente, ciò non accadrebbe alla luce del parere reso dall’Accademia della Crusca alla Corte di Cassazione - e analizzato da Rossi nel corso dell'incontro - proprio sull’uso del linguaggio di genere in ambito giuridico e istituzionale, nel quale si invita a un uso “largo e senza esitazione” della declinazione femminile (compresa “la presidente”, e tutta una serie di altri esempi elencati nel parere), così come contemplata in tutti i vocabolari. Il linguista ha poi citato il nuovo Treccani (che elenca le variabili delle parole con ordine alfabetico e non “di genere”, senza quindi far precedere il maschile al femminile) e l’uso di asterischi o schwa (la e rovesciata di alcuni alfabeti internazionali) al quale taluni fanno ricorso per esprimere una desinenza estesa al genere non binario (né maschile né femminile), che però, come suggerisce la Crusca, può essere compreso in locuzioni neutre, senza segni estranei al nostro alfabeto. L'esperienza "sul campo" con Noi Magazine La Rosa ha invece approfondito la tematica parlando dell’esperienza “sul campo” e della concreta applicazione del linguaggio di genere nella quotidianità del lavoro giornalistico, quindi ad esempio nell’uso degli spazi e delle modalità legate ai diversi media (giornale cartaceo, canali digitali, tv, radio) anche alla luce delle domande poste da colleghe e colleghi presenti, ad esempio sulla comunicazione istituzionale (folta la rappresentanza degli uffici stampa delle realtà cittadine) ancora ferma ad una nomenclatura “ufficiale” spesso interamente al maschile, soprattutto in alcune amministrazioni e apparati governativi. Si è partiti dalla definizione di “linguaggio di genere” formulata dal Parlamento europeo, come esempio di posizione istituzionale di alto profilo, facendo poi riferimento all’attività legata all’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud, che segue le scelte linguistiche adottate dal quotidiano con speciale riguardo verso il mondo della scuola e dell’Università - dove inizia a formarsi la coscienza individuale - declinando quindi il linguaggio di genere con attenzione alle diversità, così come richiedono ragazze e ragazzi che ogni settimana con i loro pezzi invocano comunicazione “non ostile” e rispetto per le differenze e le fragilità, anche contro il bullismo, la violenza di genere e la mortificante superficialità dei rapporti umani amplificata dal mondo virtuale. «L’attenzione al linguaggio di genere non è un fatto di sola sensibilità individuale, e non è una posizione ideologica, o qualcosa da percepire come fantasioso, e quasi privo di sostanza. È invece segno di una crescente sensibilità collettiva che avversa gli stereotipi e accoglie le differenze. Nella consapevolezza che ogni persona merita il giusto riconoscimento, anche nelle parole», ha sottolineato La Rosa, ribadendo come la definizione di una donna con parole al femminile non debba essere intesa come rivendicazione “partigiana” o esempio di comunicazione “patologica”, ma come una modalità fisiologica per esprimere - nell’interesse generale - una diversità “positiva”. Che non può e non deve essere annullata.