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Da Pandolfo a Bonasera: esecuzioni e testimoni scomodi. Otto storie di vittime di mafia TERZA PUNTATA

Ecco l’ultimo triste elenco di vittime innocenti colpite per ritorsione o per errore tra guerre di mafia e ribellione al racket, che chiude le nostre pagine speciali verso la Giornata della Memoria di Libera, prevista domani mattina. Casi emblematici, alcuni antesignani e non compresi da quello Stato che avrebbe dovuto invece proteggere chi si ribellava alla criminalità organizzata.

Domenico Nicolò Pandolfo

Quel maledetto 20 marzo del 1993 Domenico Nicolò Pandolfo, medico messinese, primario di Neurochirurgia agli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria, fu freddato a Locri dove era consulente del nosocomio, in pieno giorno, con 7 pallottole. Aveva 51 anni. Ha raccontato il figlio Marco in uno dei tanti incontri avuti in questi anni di solitudine per ricordare il padre: «Mio papà si è formato all’Università di Messina. Era di famiglia umile, i suoi genitori facevano i fattori, ma studiò con amore e dedizione, incoraggiato anche da suo padre, che coltivava da sempre l’idea di far diventare il figlio medico». A Reggio lo scelse il prof. Romeo Eugenio Del Vivo, neurochirurgo di fama europea formatosi a Zurigo, chiamato a dirigere una nuova divisione neurochirurgica. Quel giorno il figlio Marco, che frequentava l’ultimo anno di liceo, apprese la notizia appena tornò a casa, dove c’erano i nonni. Nicolò Pandolfo, al poliziotto che gli prestò soccorso affidò le sue ultime parole: «Ricordate il nome dei Cordì. Salutate mia moglie e i miei figli». Le indagini non portarono a nulla, anche se il principale indiziato era proprio Cosimo Cordì, considerato il capobastone dell’omonima ’ndrina della locride, che avrebbe commissionato l’omicidio perché Pandolfo non sarebbe riuscito a fare il “miracolo” e strappare alla morte la figlia. Il dottore per lungo tempo è stato dimenticato, poi Libera è stata l’unica associazione a ricordarsene.

Antonino Mazza

L’ingegnere Antonino “Tony” Mazza, oltre ad essere un privato professionista era anche editore dell’emittente “Tele News” di Barcellona. Venne ucciso nella sua villa estiva di Giammoro mentre giocava a poker con due amici, la sera del 30 luglio 1993. “Tele News” era la tv privata dove collaborava anche il giornalista Beppe Alfano, che fu ucciso nel gennaio di quello stesso anno. L’ex boss poi pentito Carmelo D’Amico, in uno dei suoi tanti verbali raccontò che il mandato ad uccidere l’ingegnere fu deciso dai vertici della famiglia mafiosa dei barcellonesi. Fu lo stesso D’Amico ad eseguire il mandato. I killer entrarono in azione poco prima della mezzanotte di quel giorno, erano in due, in sella ad una moto di grossa cilindrata, e indossavano dei caschi integrali. Fecero irruzione nella villa di Giammoro mentre erano tutti al tavolo da poker, sparando all’impazzata con un fucile calibro 12 e una pistola calibro 38. Il povero Mazza stramazzò al suolo accanto ai suoi amici, terrorizzati e immobili.

Provvidenza Bonasera

Al villaggio Aldisio, quel giorno, il 13 giugno del 1989, vicino al capolinea dell’autobus numero 2, la povera 65enne Provvidenza Bonasera stava facendo la spesa nel supermercato Despar, che apparteneva ai genitori del boss mafioso Pippo Leo, la vittima designata dei killer della fazione avversa. Quattro sicari armati arrivarono davanti al supermercato, scesero dall’auto, una Giulietta poi ritrovata bruciata, con i volti coperti da passamontagna, e cominciarono a sparare all’impazzata con un fucile a canne mozze, per eliminare Leo. Stile Chicago anni 30. Ma lui riuscì a salvarsi mentre cinque persone, ben cinque persone, tra clienti del market e passanti, rimasero feriti. Provvidenza fu ricoverata per mesi in ospedale, soffrendo atrocemente per le ferite ad una gamba, fino a morire il 27 dicembre dello stesso anno.

Angelo Alibrandi

Aveva 44 anni e finalmente, dopo diversi mesi passati a cercare un lavoro, s’era sistemato come camionista e programmava il suo futuro. Non c’entrava niente con i giri della mala messinese. Ma la mattina del 28 febbraio del 1990 un gruppo di killer, fu subito chiaro dopo le prime indagini, doveva uccidere il suo datore di lavoro Francesco Panarello, che rimase anche lui sull’asfalto privo di vita. Il teatro della sparatoria fu il capannone della ditta di Panarello, a Bordonaro Superiore. Alibrandi pagò la “colpa” di essere soltanto uno scomodo testimone della feroce esecuzione. Era dentro uno dei capannoni della ditta, appena sentì gli spari istintivamente uscì nel piazzale e vide tutto. I sicari spararono una prima volta e centrarono Panarello alla nuca. Poi, forse preoccupati di essere riconosciuti da Alibrandi, decisero di eliminarlo. Il povero camionista tentò di fuggire, ma fece solo pochi passi: venne infatti raggiunto da tre scariche di piombo alla testa e al torace e cadde a terra in un lago di sangue, vicino alle ruote posteriori di un camion. Agli investigatori fu subito chiaro che il perno delle indagini era il rapporto di parentela di Francesco Panarello, ritenuto il vero obiettivo dei killer, con Giacomo (erano fratelli), il quarantaseienne ucciso in piazza Fazio, a Camaro Superiore, la sera del primo dicembre precedente. La seconda pista seguita fu la cattura di uno dei presunti assassini di Giacomo Panarello, Pietro Trischitta, che era stato sorpreso qualche giorno prima a Terme Vigliatore dai carabinieri.

Antonio Falcone

Venne ucciso nel tardo pomeriggio dell’8 febbraio del 1996, vittima di una sparatoria avvenuta poco dopo le 19.30 nel negozio di articoli da regalo “Lory”, al numero 34 di via Bonino, a pochi metri dal campo sportivo Giovanni Celeste. Aveva 40 anni, stava acquistando un regalo per la moglie, era uno stimato operatore ecologico comunale, la sua era una bella famiglia, fu colpito da due proiettili calibro 38 al capo e ad una spalla. Rimase gravemente ferito al collo il titolare del negozio, il reale obiettivo dei killer. Ma Falcone forse cercò di reagire, probabilmente ci fu una colluttazione, e pagò con la vita la sua reazione. A sparare furono due sicari con il volto coperto da passamontagna. Arrivarono in via Bonino a bordo di una Fiat Uno grigiometallizzata, che dopo la sparatoria fu abbandonata a breve distanza, all’incrocio tra il torrente Gazzi e la via Comunale.

Gregorio Fenghi

Venne ucciso l’8 agosto del 1986 nei pressi della chiesa di San Clemente insieme al cognato ed ex poliziotto Corrado Parisi, che era uno dei 95 imputati nel maxiprocesso alle quattro cosche mafiose messinesi, il vero obiettivo del killer, affiliato al clan Costa, all’epoca rimesso in libertà da appena una settimana per decorrenza del termini di custodia cautelare. Fenghi aveva appena 28 anni e non c’entrava nulla con la criminalità organizzata, era un onesto impiegato delle Ferrovie dello Stato in servizio a Cuneo, e da qualche giorno era in ferie a Messina, perché da appena tre giorni era diventato padre. A sparare probabilmente fu un killer che era in auto con le due vittime, sulla vettura di Fenghi. Il duplice omicidio si consumò intorno alle 19, all’incrocio tra via Centonze e via Citarella, in pieno centro cittadino, di fronte alla chiesa di S. Clemente, a pochi metri dal viale Europa. Il sicario probabilmente adoperò una pistola munita di silenziatore, perché nessuna delle persone che si trovavano nei paraggi al momento del delitto sentì esplodere colpi di pistola. I due cognati viaggiavano a bordo di una Fiat Regata 70 di colore marrone. Suo figlio aveva appena 3 giorni di vita quando Fenghi morì. Non l’ha mai conosciuto.

Giuseppe Napolitano

La sua storia è antesignana della ribellione al racket. Napolitano pagò con la vita il suo grande coraggio e l’onestà. Era un giocattolaio, aveva 52 anni, e venne trucidato il 22 febbraio del 1991 davanti al suo bel negozio di Largo La Rosa, si chiamava “Francois”, a Minissale, che in precedenza era stato incendiato dal racket ben cinque volte. Ma lui aveva sempre detto no al pagamento della “protezione” e aveva rimesso in piedi la sua bottega di giocattoli . Il killer lo attese con pazienza e gli sparò cinque colpi di pistola calibro 7,65 pochi istanti dopo che l’uomo era sceso dalla sua auto. Le pallottole lo centrarono mortalmente al torace e all’addome. Non contento l’assassino lo finì con un colpo di grazia alla testa. A dare l’allarme fu il figlio Massimiliano, disperato, in lacrime, accorso sul posto dopo pochi istanti, si trovava all’interno del negozio assieme alla madre. Le indagini scattarono subito e l’ipotesi che trovò maggior credito fu proprio quella che l’esecuzione fosse stata decretata dal racket che gestiva la “protezione” ai commercianti della zona. Il negozio di Napolitano era stato incendiato ben cinque volte negli ultimi tempi prima dell’omicidio. Nel marzo dell’anno precedente gli attentatori erano entrati in azione due volte in meno di 24 ore, distruggendo completamente il locale. In quell’occasione l’uomo aveva dichiarato in un’intervista alla “Gazzetta” di temere per la propria vita. Ma venne lasciato completamente solo. Sapeva da tempo di essere nel mirino dei killer: «Mi perseguitano, vogliono a tutti i costi che mi pieghi alla loro legge e paghi la mazzetta, ma io non cederò». La sua sfida si concluse una sera, a pochi metri dal negozio per il quale aveva deciso di battersi fino alla fine.

Nunzia Spina

Fu vittima innocente nel 1986 del duplice omicidio Bonsignore-Spina, all’Istituto Ortopedico di Ganzirri. I killer dovevano uccidere l’uomo di rispetto Pietro Bonsignore, fedelissimo di Placido “Nuccio” Cambria, che era ricoverato proprio in quell’ospedale, e la povera Nunzia Spina ebbe il solo tragico “torto” di trovarsi nei paraggi quando fecero irruzione i sicari, che senza pensarci molto decisero di eliminare una pericolosa testimone. Venne uccisa l’8 ottobre del 1986 nella sala d’attesa dell’ospedale, probabilmente c’era suo figlio con lei. Pietro Bonsignore morì perché rifiutò di schierarsi con i “vincenti”, i boss Costa e Marchese.

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