La seconda puntata del nostro viaggio tra le vittime innocenti di mafia uccise da Cosa nostra, a Messina e in provincia, scandisce altri nomi. In alcuni casi non esiste ancora una verità definitiva tra le carte di un processo. Lunedì le vittime saranno tutte ricordate dal presidio messinese di Libera a piazza Unione Europea, in contemporanea con la marcia nazionale di Libera che si terrà a Napoli per la “XXVII Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”.
Nino D’Uva
Nel corso del primo maxiprocesso alla mafia messinese, il 6 maggio 1986, venne ucciso l’avvocato Nino D’Uva, uno dei penalisti più preparati e più in vista della città, che nel processo difendeva ben tredici imputati. La mattina di quel giorno ci fu una lunga e concitata udienza al maxi, nel pomeriggio avvenne l’omicidio, nel suo studio, in pieno centro, accanto piazza Duomo. Quell’unico proiettile calibro 7,65 usato dal killer colpì un’intera città sempre sonnolenta. Chi era il mandante? Il boss Gaetano Costa, che dalle gabbie dei detenuti gli lanciò addirittura una scarpa contro durante un’udienza. Sì, proprio una scarpa. L’omicidio fu la curva mafiosa più alta di una serie di avvertimenti pesantissimi, tutti a penalisti impegnati nella difesa di mafiosi, avvenuti negli anni precedenti in città. Si contarono ben otto casi tra gambizzazioni e attentati incendiari. Perché venne ucciso D’Uva, oltre che avvocato anche un intellettuale noto in città? Fu un segnale inequivocabile e devastante soprattutto ai legali, che i clan giudicavano troppo poco impegnati, “molli” al maxiprocesso. Fu il primo eclatante atto della strategia del terrore decisa proprio dalle gabbie di Gazzi dal padrino Costa per influenzare tutto e tutti, giudici e avvocati, mutuando le parallele strategie di Cosa nostra palermitana di quegli anni. La sentenza del maxiprocesso fu a dir poco scandalosa, fu molto criticata dai due pm di allora, Franco Providenti e Italo Materia. Rispetto al quadro dell’accusa, solido e chiaro, fu una “pioggia” di assoluzioni, e soprattutto non riconobbe affatto che la mafia a Messina c’era eccome.
Beppe Alfano
Era un cronista, è uno degli otto giornalisti ammazzati da Cosa nostra in Sicilia. Fu ucciso alle dieci di sera dell’8 gennaio del 1993 in via Marconi, sotto casa sua, a Barcellona Pozzo di Gotto, con tre colpi di pistola calibro 22 esplosi da distanza ravvicinata, mentre era sulla sua vecchia Renault 9. Era un occhio sempre attento e critico su un territorio di mafia, poco prima di morire aveva capito che Nitto Santapaola si nascondeva in quelle zone, aveva scritto dello scandalo Aias. Negli ultimi tempi una clamorosa svolta nell’inchiesta ter sul delitto, a ben 29 anni dalla sua morte. Dopo le dichiarazioni del pentito barcellonese Carmelo D’Amico («non è stato Merlino a sparare»), la Procura antimafia di Messina aveva iscritto nel registro degli indagati due persone, Stefano Genovese e Basilio Condipodero, rispettivamente come presunto killer e fiancheggiatore. Dopo altri vari passaggi e le dichiarazioni di un altro pentito, il milazzese Biagio Grasso, rimane attualmente indagato solo Genovese. La Dda di Messina ha di recente sentito nuovamente in carcere il killer condannato in via definitiva a 21 anni, Antonino Merlino. Per questa esecuzione sono già stati condannati a 30 anni il boss barcellonese Giuseppe Gullotti, che su questa vicenda ha avuto accolta la richiesta di revisione del processo, in corso a Reggio Calabria, e a 21 anni appunto, come esecutore materiale, Antonino Merlino.
Graziella Campagna
Aveva 17 anni quando venne sequestrata e ammazzata a colpi di lupara sui Colli Sarrizzo. Era la sera del 12 dicembre 1985. Graziella era nata a Saponara, dove viveva con la famiglia, con la sua adorata “mammitta” Santa, che ancora oggi al ricordo di quella figlia, seduta accanto al tavolo, in cucina, scoppia in lacrime. La cassapanca del suo corredo mai indossato è ancora lì. Dopo vent’anni di depistaggi e collusioni istituzionali al nuovo processo è stato ergastolo al boss palermitano Gerlando Alberti jr e al suo “picciotto” Giovanni Sutera. Graziella - questa la sua “colpa” - aveva ritrovato, nella lavanderia dove lavorava da qualche tempo, un’agendina compromettente dimenticata da Alberti jr, in quei mesi latitante servito e riverito a Villafranca Tirrena insieme al suo uomo di fiducia Sutera. Il cadavere di Graziella venne ritrovato due giorni dopo la scomparsa nei pressi di Forte Campone, a Villafranca, dal fratello carabiniere “testa dura”, Pietro. Che non si è mai arreso, continuando a indagare da solo e a volere la verità, insieme al suo avvocato Fabio Repici.
Anna Cambria
Il bersaglio dei killer era Francesco Alioto, centravanti della squadra di calcio di Rodì Milici. Secondo i processi già conclusi doveva essere eliminato perché era un appartenente al clan milazzese dei Sottile-Geraci, era inserito in un’organizzazione che curava lo spaccio della droga nella città del Capo. Contrastava l’inserimento del gruppo messinese comandato dal boss Mario Marchese negli affari delle famiglie dell’hinterland milazzese. Si tenne un vertice nel corso del quale fu deciso di eliminarlo. Così la sera dell’8 novembre 1989, poco prima delle 20, Alioto parcheggiò la sua Fiat Uno in via Risorgimento, a Milazzo, nei pressi del bar Amoroso. I killer attesero pazientemente, poi entrarono in azione sparando all’impazzata. Alioto stramazzò a terra ma un proiettile vagante colpì la povera Anna, una splendida studentessa milazzese di 16 anni che frequentava l’Istituto Commerciale e che proprio in quel momento stava uscendo dal locale, mangiando tranquillamente una brioche. Aveva appena comprato le gomme da masticare per il fratellino. Non riuscì a portargliele. Quel lenzuolo bianco disteso è l’ultima triste sua immagine, e chi scrive chiede scusa ai suoi genitori se la sua foto rinnova un dolore impossibile da sopportare, lo fa soltanto per il grande valore della testimonianza.
Giuseppe Sottile
Il figlioletto che muore al posto del padre, il killer che sbaglia bersaglio e il sangue di quel piccolo caduto di mafia, sporca di rosso terribile l’asfalto d’una strada secondaria di Milazzo. Il nome del piccolo Giuseppe Sottile, morto a 13 anni per la mattanza ricostruita nel maxiprocesso “Mare Nostrum”, è finito nell’oblìo. Il killer che sbagliò bersaglio quel giorno e l’uccise era Carmelo De Pasquale, poi ammazzato a Barcellona nel 2009 in un’altra guerra di mafia. Voleva diventare un gran giocatore di pallavolo Giuseppe Sottile. Tutte le mattine andava alla “Zirilli” di Milazzo, dove frequentava la seconda media. La sua vita si spezzò a soli tredici anni il 1. luglio del 1990, la notte in cui a Milazzo un commando mafioso lo scambiò per il padre, Felice Sottile, che quella sera doveva morire per una storia di droga. Non andò così. Quella notte i killer attesero a lungo l’auto di Felice Sottile, nascosti nei pressi della casa di famiglia, in contrada Fiumarella, a Milazzo. Attesero fin quando dall’auto scesero la madre del ragazzino e i suoi due fratellini, poi spararono con una pistola calibro 38 e un fucile calibro 12. Giuseppe si era forse fermato col padre, si preparava ad aiutarlo ad aprire il cancello della casa di contrada Fiumarella. Il cancello restò chiuso.
Ignazio Aloisi
Trentuno anni fa, il 27 gennaio 1991, Ignazio Aloisi, guardia giurata di 44 anni, veniva ucciso con tre colpi di pistola a Messina. Il dazio che l’uomo avrebbe pagato per la collaborazione data agli investigatori per identificare gli autori di una rapina al casello autostradale di Tremestieri. E nonostante ci sia già stata una condanna, la figlia del metronotte, Daniela Aloisi, non ha ancora ottenuto il riconoscimento, lo status di vittima di mafia. «Chiedo che dopo tanti anni di ritardi – ha detto in passato la donna –, mio padre, la cui memoria è stata più volte infangata, abbia riconosciuto il suo sacrificio». I parenti di Aloisi hanno chiesto il riconoscimento del ministero dell’Interno nel 1993, richiesta rigettata in prima battuta per scadenza dei termini. Ripresentata dopo la sentenza d’appello del 1995, in quel caso l’iter fu bloccato dal fatto che durante il secondo grado uno dei presunti mandanti, Pasquale Castorina (condannato per aver ordinato l’omicidio) disse che Aloisi era stato il suo basista nella rapina e non si era mostrato soddisfatto della spartizione del bottino. Alcuni anni fa le indagini furono riaperte e sfociarono in un processo per calunnia nei confronti di Castorina.
Attilio Manca
Era un giovane e brillante urologo barcellonese, fu trovato morto “suicidato” in circostanze poco chiare nel febbraio 2004 nel suo appartamento di Viterbo, città dove lavorava come medico. Sulla vicenda la famiglia Manca, mamma Angela e papà Gino, il fratello Gianluca, sono ancora in cerca di una verità. Fu tra i primi in Italia ad avviare le sperimentazioni per l’operazione alla prostata per via laparoscopica. La morte, così come stabilì l’autopsia ordinata dalla procura di Viterbo, fu causata da una iniezione letale composta da un mix di sostanze stupefacenti nocive e tranquillanti. La famiglia del medico insiste invece da anni perché sia ricercata la matrice mafiosa per quello che viene definito un “omicidio”, mettendo la morte del congiunto in relazione all’operazione medica alla prostata a cui si sottopose, in incognito, in una clinica di Marsiglia, grazie a falsa identità, il boss Bernardo Provenzano. Lo scenario processuale sembrava cambiato dopo le dichiarazioni esplosive del pentito barcellonese Carmelo D’Amico: sarebbe stato «u calabrisi» a uccidere l’urologo barcellonese, il boss Rotolo lo chiamava pure «u bruttu»; «u calabrisi» era «un ufficiale dei Servizi», uno che «era bravo a far apparire come suicidi quelli che erano a tutti gli effetti degli omicidi». Perché? Il dott. Manca avrebbe curato in gran segreto Bernardo Provenzano con la “mediazione” dell’avvocato barcellonese Saro Cattafi. D’Amico, nel verbale, parla di incontri avuti sul caso Manca con il medico barcellonese Salvatore Rugolo, morto in un incidente stradale, che era cognato del boss Giuseppe Gullotti, e di colloqui in carcere a Milano con il boss della Noce Nino Rotolo. Ma ancora oggi non c’è una nuova verità su questa morte.
Elisa Geraci
Elisa Geraci aveva appena 17 anni. Venne ferita casualmente in un agguato di mafia il 7 gennaio del 1981, sul vale Giostra. Morì dopo alcuni giorni d’agonia, il successivo 11 gennaio. Elisa venne ferita mentre con la sorella minore chiacchierava casualmente con un 21enne che aveva dei precedenti penali, il quale incontrando le due ragazze era sceso dalla propria auto e si era avvicinato per salutarle. In quegli stessi istanti passò un’altra auto e dal finestrino qualcuno sparò alcuni colpi a raffica. Un proiettile colpì al collo la povera Elisa, facendola stramazzare a terra. Fu soccorsa e trasportata all’ospedale Margherita, poi venne trasferita al Policlinico. Un lungo intervento chirurgico, il fiato sospeso dei parenti. Poi le condizioni precipitarono e l’11 gennaio, Elisa morì. 2. continua