Nino Sboto aveva appena 21 anni quando gli dissero che c’era un trasloco in ballo per farlo uscire di casa. Faceva piccoli furti per i fatti propri, insomma s’arrangiava, non era affatto organico a Cosa nostra. Forse avrebbe imparato un giorno a vivere onestamente nonostante il contesto. Lo trascinarono in un torrente, l’Idria, nella notte fra il 3 e 4 maggio del 1999. Uno scenario desertico e cupo. Il suo è uno dei nomi che gonfiano di sangue le motivazioni della sentenza d’appello del maxiprocesso Gotha 6, depositate di recente e scritte dal presidente della Corte d’assise d’appello Maria Pina Lazzara.
È l’esecuzione più feroce dalla triste cesta giudiziaria degli omicidi contati in questo procedimento dal 1993 al 2012, decisi dalla cupola di Cosa nostra barcellonese. Quella veramente agghiacciante. Dopo avergli fracassato il cranio spalle al muro a colpi di pistola, con una professionalità non comune gli mozzarono le mani con un machete e un coltello da macellaio per mandarlo a dire a tutta Barcellona, che in certe case “protette” non si doveva affatto rubare. La mafia, per la prima volta, in Sicilia, applicava una pena “prevista” dal Corano per chi ruba, tanto che la notizia fu diffusa persino in Arabia Saudita.
Il suo cadavere venne ritrovato in uno scenario da incubo: gli avevano sparato alla nuca alcuni colpi di pistola a bruciapelo ed entrambe le mani gli erano state mozzate.
Una prima informativa ipotizzò che quel ragazzo di 21 anni qualche giorno prima avesse “visitato” la casa di Pietro Arnò, “compare” del boss Gullotti, ma al primo processo la causale più credibile fu un’altra: un furto in abitazione, bottino di circa 15 milioni di lire, a casa della madre e della sorella dell’ex netturbino della coop “Libertà e lavoro” Salvatore Micale, poi diventato uomo di rispetto.
Ma nella triste lista di questo processo ci sono anche altri tre giovani cadaveri. La notte del 4 settembre del 1993 nei pressi del vecchio passaggio a livello di via Ugo di Sant’Onofrio, a poca distanza dal muraglione dell’Opg e della vecchia stazione ferroviaria di Barcellona, dismessa pochi mesi prima, una miriade di colpi investì tre giovani di Milazzo poco meno che trentenni, Giuseppe Raimondi, Giuseppe Martino e Giuseppe Geraci. La spiegazione processuale e investigativa sempre la stessa: la “punizione” della famiglia mafiosa per tre ragazzi che realizzavano furti d’auto e rapine di basso livello sul territorio di Barcellona senza chiedere “permesso”.
A chiarire i retroscena di questa feroce esecuzione molti anni dopo sono stati i collaboratori di giustizia, soprattutto l’ex capo dell’ala militare della famiglia barcellonese Carmelo D’Amico, in due verbali riempiti davanti agli allora sostituti della Dda Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, a luglio e dicembre del 2014.
«Sboto era un ladruncolo - raccontò D’Amico - non faceva parte della nostra organizzazione, era un cane sciolto che andava a rubare qua e là autonomamente. Sboto è stato ucciso perché commetteva furti in giro e per tale motivo dava fastidio un poco a tutti». Il giorno dell’omicidio il ragazzo si recò ad un appuntamento, ma non sospettava che fosse una trappola.
Sempre D’Amico spiegò in quei verbali: «Ad attenderlo a bordo di una jeep c’eravamo io e Antonio Calderone. Eravamo armati con una pistola calibro 7,65, mentre Micale Aurelio non era armato... decidemmo di tagliare le mani di quel ragazzo per dare un esempio a tutti: a Barcellona non si doveva rubare senza il nostro consenso e, specialmente, non si doveva rubare “ad un parente nostro”, ossia ad un parente di un associato alla nostra organizzazione». In “Gotha 6” erano imputati per questa esecuzione Antonino Calderone (cl. ’75) e il pentito Aurelio Micale, condannati entrambi.
Le dichiarazioni dei pentiti
Scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza a proposito delle ventilate discrepanze nel racconto dei vari pentiti evidenziate dal collegio difensivo: «... sulla ricostruzione del nucleo essenziale del fatto tutte le dichiarazioni risultano convergenti e non è emerso alcun concreto elemento che consenta di sostenere che D’Amico Carmelo, D’Amico Francesco, Gullo Santo, Siracusa Nunziato e Micale Aurelio abbiano voluto accusare Calderone per un fatto da lui non commesso. Il racconto dei collaboratori, poi, non solo può ritenersi concordante nel nucleo essenziale, ma anzi esso ha trovato importanti riscontri negli esiti delle investigazioni: come ricostruito in sentenza, Micale Salvatore è stato assolto in via definitiva dal delitto in oggetto, per non avere commesso il fatto, ma proprio il contenuto del fascicolo processuale in oggetto finisce con il fornire eccezionali elementi di conferma in ordine alle modalità di esecuzione dell’omicidio, per come raccontato da tutti i collaboratori sopra indicati. Secondo quanto ricostruito dal teste Iovine, in forza al Ros Cc di Messina, l’attività investigativa svolta nell’immediatezza del fatto permetteva di individuare gravi indizi di colpevolezza a carico di Micale Salvatore, inteso “Calcaterra” e di Calderone Antonino, inteso “Caiella”.
Il Gip del Tribunale di Barcellona P.G. in data 8.05.1999, emetteva le o.c.c. in carcere nei confronti dei suddetti, ritenuti gravemente indiziati dell’omicidio del giovane Sboto Antonino. Calderone Antonino, dopo poco tempo, in data 29.05.1999, veniva scarcerato dal Tribunale del Riesame per carenza di gravi indizi e successivamente la sua posizione veniva archiviata, mentre Micale Salvatore veniva tratto a giudizio per rispondere di quel grave reato innanzi alla Corte d'Assise di Messina. Il processo veniva definito con la sentenza n. 10/02, pronunciata in data 22/06/2002 e confermata in appello, con la quale venivano assolti con formula piena tanto Micale Salvatore, quanto..., dipendenti del Micale, impiegati presso l’esercizio commerciale di vendita di animali domestici, denominato “La Casa del Canarino”, imputati del reato di favoreggiamento in favore di costui. Il teste Sirna, all’epoca dirigente del Commissariato di Ps di Barcellona P.G. incaricato delle indagini su quel fatto di sangue, ha riferito come Sboto Antonino fosse un soggetto stabilmente dedito ai furti in abitazione, tant’é che ha confermato che la vittima era stata ripetutamente denunciata per furto, per ricettazione, per detenzione di armi da taglio. D’altra parte, dal certificato penale del predetto risultano precedenti specifici per reati contro il patrimonio ed inoltre, in sede di perquisizione eseguita nella immediatezza del delitto, presso l’abitazione della nonna convivente della vittima, è stata rinvenuta merce di vario tipo, tutta di provenienza furtiva».
La telefonata anonima
C’è un altro aspetto a cui la Corte dà molta importanza, quello della telefonata anonima che segnalò l’omicidio. Vediamo perché: «Altro elemento di imponente significanza - scrivono i giudici nella motivazione -, emergente dal richiamato procedimento, è rappresentato dal fatto che il corpo di Sboto Antonino fu rinvenuto soltanto a seguito di una telefonata anonima, così come puntualmente ricordato da parte del collaboratori di giustizia D’Amico Carmelo e Francesco e il teste Sirna, sempre nel corso della sua deposizione, ha riferito che, intorno alle 12,30 del 5.5.1999, era giunta al Nucleo operativo della Compagnia Carabinieri di Barcellona una telefonata anonima che segnalava in maniera circostanziata la presenza di un cadavere in località Lando del Comune di Barcellona P.G., dove poi in effetti, veniva rinvenuto il corpo senza vita di Sboto Antonino, con le mani mozzate. Ed il teste Iovine, sentito all’udienza dell’1.12.2017, ha ricordato di aver materialmente individuato l’audio relativo a quella telefonata anonima, ai tempi debitamente registrata, e di avervi riconosciuto, senza alcuna ombra di dubbio, proprio la voce di D’Amico Carmelo.
Il teste ha letto in udienza la trascrizione da lui stesso effettuata e da essa risulta che l’anonimo interlocutore ha utilizzato le identiche espressioni utilizzate dal D’Amico nel corso della sua deposizione, per indicare il luogo ove era stato ucciso e poi occultato il cadavere di Sboto (“contrada Lando, verso le montagne... dove spaccavano le pietre... ci sono sportelli sparati di macchine cento metri più avanti... là sotto un muretto... sotto delle erbe alte... c’è il cadavere”), il che conferisce al dichiarato del D’Amico correttamente evidenziato in sentenza, carattere di assoluta attendibilità. Come il contenuto specifico di quella telefonata anonima, nel corso del processo a carico di Micale Salvatore, non fu mai analizzato, né tanto meno reso pubblico, essendosi i vari appartenenti alla Forze dell’Ordine, sentiti in qualità di testimoni, limitati a riferire il dato oggettivo della presenza di una telefonata anonima. Soltanto nel corso delle ultime indagini, a seguito delle quali si è instaurato il presente giudizio, si è proceduto alla materiale individuazione di tale audio, rimasto per anni depositato presso l’ufficio Corpi di reato di Barcellona P.G., al suo ascolto ed alla relativa trascrizione».
3. fine
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