Un intreccio di destini. Come l’Italia, che per Michel Platini, “Le Roi”, è la terra dei nonni – originari del Novarese, in Piemonte –, diventata poi la sua seconda patria, la nazione che l’ha consacrato come uno dei migliori calciatori dello scorso secolo, l’uomo che ha reso grandissima la Juventus, trascinata sul tetto del Mondo con la sua innata classe e l’abilità di trasformare una giocata in un’opera d'arte. Come lo è la Sicilia nel destino del francese, la terra che ha segnato il suo debutto assoluto in Italia (era il 18 agosto ’82, al vecchio “Cibali” Catania-Juventus di Coppa Italia, 1-1), quell’Isola «che mi piace da sempre perché è baciata dal sole, tanto che ci sono tornato in vacanza». Destini che s’intrecciano in una location d’eccezione a Santa Lucia del Mela, nell’evento ben organizzato dallo Juventus Club del presidente Benedetto Merulla, intitolato a Gaetano Scirea, al “Palasport” da poco dedicato a un altro “mundial”, Paolo Rossi, l’eroe del “Sarrià”. Due icone bianconere che hanno fatto la storia anche in azzurro: «E questo è uno dei motivi per cui sono qui – esordisce Michel Platini, nel piccolo centro del Messinese per i 40 anni del club di Merulla e acclamato da centinaia di cuori bianconeri (e non solo) –. Quando ho sentito club Scirea ho avuto un sussulto al cuore. Gaetano era qualcosa di diverso, di più grande. Paolo la persona più gentile e serena che io abbia mai conosciuto. Sono stati due grandissimi della mia Juventus. Come Zoff. Molto più del sottoscritto: loro il Mondiale l’hanno vinto, io no. E me lo facevano anche pesare..». Ovazione e cori da stadio, Michel quasi si commuove per tutto questo affetto: «Sono passati quarant’anni dal periodo d’oro con la Juve, ma l’amore dei tifosi per me non è mutato. Non è facile spiegare questa passione: evidentemente qualcosa l’abbiamo vinta...». Michel colpisce con la sua ironia, quella che aveva subito conquistato l’Avvocato. «Eppure quando arrivai neanche sapevo chi fosse – ammette riferendosi a Gianni Agnelli –. Il giorno della firma Boniperti mi passò il telefono: “Ti vuole parlare l’Avvocato”. E io: ma se è qui con me, mi ha aiutato a firmare il contratto. E lui: “Ma non quello, l’Avvocato con la A maiuscola”. Devo dire che poi questo Avvocato è diventato famoso...». «L’Avvocato mi voleva bene» Tra i due un feeling tra vincenti: Michel era quel genio in campo che Agnelli sognava di rivedere dai colpi di Sivori: «Mi voleva bene perché rispondevo alle sue battute con altre battute. Gli altri non lo facevano. L’Avvocato ricordava a tutti che mi aveva scelto lui e non Boniperti: era un suo motivo d’orgoglio». Platini, insomma, per il patron bianconero era il campione giusto per puntare alla prima Coppa dei Campioni: «Vi sembrava facile entrare in uno spogliatoio di campioni del mondo e incidere subito? Non lo fu affatto per me – ricorda il francese – e per Boniek: quando si perdeva la colpa era sempre nostra...». Michel parla a ruota libera: «E nei momenti difficili mi aggrappavo ai più esperti: quando le cose non andavano per il meglio Gaetano (Scirea, ndr), l’anima della squadra, organizzava le cene per stemperare la tensione. Il mondo Juve andava capito e in questo erano bravissimi Zoff e Scirea a fare gruppo come anche Tardelli e Cabrini». E non accetta, Michel, quando gli si dice che quella maglia inizialmente gli pesava: «Non poteva essere un peso, ma un privilegio: quella maglia mi completò permettendomi di dimostrare il mio valore». Il 1983 è l’anno del suo primo Pallone d’Oro, ma sfuggono scudetto e soprattutto una Coppa del Campioni... già vinta: «Che delusione ad Atene! Ricordo, invece, bene la partita che ci diede la spinta e la consapevolezza di potercela fare: Aston Villa-Juventus, 2 a 1 per noi. Quella sera lanciammo un segnale forte. Eravamo troppo forti per pensare di non vincerla, quella Coppa. E invece successe. Condivido il pensiero di Boniek: se avessimo battuto l’Amburgo, poi avremmo vinto altre quattro Coppe dei Campioni consecutive». Se la Juve divenne più moderna della solita “trapattoniana” squadra è perché «un giorno andammo da Boniperti: non potevamo più giocare con il solito schema del cross dal fondo per il centravanti. Trap ci ascoltò. Del mister non mi piaceva... quando mi cambiava: per mantenere il risultato richiamava me e Tardelli inserendo Vignola e Prandelli, sempre!». Dopo Atene prese forma il ciclo bianconero: scudetto, Coppa Italia, Coppa delle Coppe nel 1984 – l’anno probabilmente in cui si vide Michel al top soprattutto in Nazionale – fino alla drammatica notte di Bruxelles che vide i bianconeri alzare la Coppa ma piangere 39 vittime: «Quella squadra non meritava l’epilogo di Atene e il tempo fu galantuomo – aggiunge Michel –. Sono stati i migliori anni della mia vita, anche in Nazionale». Se Atene è stato il punto più deludente di quel ciclo bianconero, Tokyo è il punto più alto del percorso di Michel alla Signora: «Segnai il rigore decisivo e alzammo la Coppa. Immaginatevi se l’avessimo persa dopo il gol ingiustamente annullato al sottoscritto...». Quella posa di Michel sdraiato sul campo con sguardo deluso verso l’arbitro tedesco Roth è un pezzo di storia. Lo scatto porta la firma di Salvatore Giglio, seduto al fianco di Michel, per 44 anni fotografo ufficiale della Juventus: «Immortalai tutta la sequenza, Michel non si dava pace», le sue parole. Platini ammette di essersi sentito «svuotato, triste, sconsolato. Ho solo evitato di andare dall’arbitro perché avrei preso un anno di squalifica». “Le Roi” poi svela un altro retroscena: «Anni dopo incontrai casualmente a Singapore proprio il guardalinee che segnalò il fuorigioco all’arbitro nell’azione del mio gol all’Argentinos. In ascensore: “Io sono quel signore che alzò la bandierina...”. Lo guardai negli occhi, lo presi per il bavero della giacca e gli dissi “maledetto”. Poi ci siamo fatti insieme una bella risata. Certo, sapere che un gol bello come quello di Tokyo sia stato annullato per un fuorigioco di Brio non mi ha fatto stare bene per tanto tempo. Capite? Brio! Che ci faceva in area?». Fortuna che di gol belli Michel ne abbia fatti tanti: «E anche importanti: il primo al Pescara, in Coppa, mi tolse un po’ di pressione, fu molto bello quello all’Ascoli, con il sombrero di tacco a un difensore e il pallonetto al portiere in uscita: il merito fu di Bettega, se non mi avesse dato la palla così male e così indietro non avrei inventato quel colpo di tacco!». Risate e applausi, anche questo è Michel. Negli anni ’80 il duello con un altro fantastico “10”, Diego Maradona, accese la Serie A: «Era la stampa a metterci contro, ma tra di noi c’è sempre stato grande rispetto. Cosa potrei dire di uno che ha portato il Napoli così in alto? Ci rispettammo fino all’ultimo: lui venne alla mia partita d’addio al calcio a Nancy, io ricambiai andando a Buenos Aires». Già, i numeri 10. La Juve è una galleria d’arte con tanti fantastici “pittori” ad aver indossato quello gloriosa maglia: «Tutti mi chiedete chi sia stato il più forte tra Sivori, Platini, Baggio e Del Piero: come si fa a scegliere? Siamo tutti diversi pur nello stesso ruolo. È come si io dicessi: chi è stato meglio tra Battisti, Celentano e Lucio Dalla?». Il troppo calcio di oggi in tv lo annoia: «Guardo poche partite, c’è troppa sovraesposizione del prodotto. E non posso tollerare che i numeri 10 siano in fase di estinzione. Ho visto giocare sulla fascia Zidane a Madrid, Ronaldinho e Messi al Barcellona e non ho condiviso. Giocatori come loro devono essere liberi di esprimere il proprio genio centralmente. Semmai mancano le vere ali e l’abilità di saltare l’uomo: sono spariti i dribbling!». La nuova Champions non gli piace al contrario della Nations League che è proprio una sua idea da presidente dell’Uefa: «Così non ci sono più amichevoli grandi-piccoli ma un torneo diviso a fasce con partite più interessanti senza quelle goleade inutili». Ma un giorno Platini tornerà nel mondo del calcio? «No. Sto bene nella mia casa nel Sud della Francia (Michel vive a Cassis, ndr). Sapete, spesso c’è il sole e io amo stare al caldo. Come in questa terra magnifica che si chiama Sicilia».