Nel Dna di Santo Stefano di Camastra spicca la ceramica. Un elemento chiave nel patrimonio genetico di molti suoi residenti, alcuni dei quali rinomati “maestri artigiani”. E la ceramica fa parte anche dell’identità di un paese di oltre quattromila anime, più vicino a Palermo che a Messina, però incluso nei tesori della provincia peloritana. Gran parte del suo territorio abbraccia la ceramica e vive di ceramica. Ai margini del centro abitato regnano laboratori di più ampie dimensioni. La via Vittoria, che attraversa Santo Stefano di Camastra, pullula di botteghe con i coloratissimi “gioielli hand made” in bella mostra. Le insegne di strade e piazze, ovviamente, sono composte di ceramica. Non fa eccezione la Stazione ferroviaria, impreziosita da maioliche sulla facciata principale. La cittadina è attiva, e le presenze di turisti affascinati da quel mondo di oggetti di varie forme non manca. Sembra tutto andare a gonfie vele, eppure, dal racconto dei commercianti, tra le rose si nascondono le spine. Gli affari non sono più quelli di un tempo e solo una minoranza riesce ad affermarsi in un periodo storico, quello attuale, in cui l’arte – l’arte vera – spesso lascia il posto ad altro ed è soppiantata dall’artefatto. I ceramisti di qualità, abili a inseguire le esigenze del mercato e soddisfare i palati più fini, emergono. Godono di una clientela di nicchia, esclusiva, proprio come le loro creazioni. È questa la carta vincente, la strada pianeggiante che consente di procedere veloci, superando una crisi economica asfissiante. La qualità, quindi, sormonta la quantità. Si offre a canali diversificati, travalica i confini della provincia, della regione siciliana, si apre a orizzonti più ampi, con guadagni consistenti. Il commerciante che promuove il suo creato sfruttando le vendite online e i contatti social è quello che ha una marcia in più. Ed ecco che la tradizione della lavorazione sfrutta le chance dell’innovazione del marketing, in un connubio tanto fondamentale quanto vitale.
«Ma Santo Stefano di Camastra non è Caltagirone», tiene a precisare un ceramista messinese. Secondo cui, il borgo che si affaccia sul Mar Tirreno paga non poco dazio alla cittadina catanese. Intanto, per le dimensioni e per la popolazione, visto che l’urbe calatina conta oltre 35mila residenti. Poi, per la visibilità acquisita nel tempo, ragion per cui, le sue ceramiche risultano molto più pubblicizzate e rinomate. Quindi, per i riconoscimenti ottenuti, uno su tutti: il centro storico di Caltagirone, disposto ad anfiteatro, è uno dei pochi della Sicilia orientale ad aver conservato, dopo il terremoto del 1693, parte delle testimonianze dell’arte e dell’architettura medievali e, soprattutto, la tipologia dell’abitato. Il che gli è valso il riconoscimento dell’Unesco, nel 2002, di Patrimonio mondiale dell’Umanità. Tornando alla ceramica, risale al V Secolo a.C., e, oltre al Museo ad esso dedicato, la presenza di questa tradizione marchia alcuni edifici e monumenti: in primis, la Cattedrale di San Giuliano, con il campanile e la cupola decorate in maiolica. Un parallelismo, quindi, che evidenzia ampie differenze, una forbice difficile da colmare, se non con un intervento esterno. I ceramisti stefanesi, come detto, ci mettono del loro, ogni giorno faticano e lottano. Questo, da solo, non può bastare. È necessaria, allora, la mano “pubblica”, quella che ha pianificato opere indispensabili al rilancio dell’intero paese e che troppo spesso si ferma. Un esempio? Il progetto del porto turistico di Santo Stefano di Camastra e delle opere connesse, quello che ancora oggi sembra un cantiere morto, in cui l’unica cosa vivida è l’arancione delle reti di recinzione e nel quale, giovedì scorso, c’era un solo operaio al lavoro. Infrastrutture attese come la manna dal cielo dagli stefanesi. Opere che ammaliano e incantano se viste su carta oppure su ricostruzioni al computer. Lavori che procedono a passo di lumaca, mentre il tempo scorre, anzi vola. Col rischio che un’arte specifica e speciale diventi sempre più per pochi eletti o, peggio ancora, del tutto improduttiva. Con lo spauracchio che quell’impronta genetica possa modificarsi irrimediabilmente, fino a disperdersi. E sarebbe un peccato mortale.
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