Messina

Lunedì 21 Ottobre 2024

Le ceramiche di Santo Stefano di Camastra: tornio, argilla e acqua: tre elementi che creano magia

«La mia passione per la ceramica è nata per caso. Negli anni Ottanta, ogni giovane, ogni ragazzo, quando finiva la scuola, nel periodo estivo “andava a bottega”». Ad affermarlo è Nicola Mirenda, 52 anni, tra gli artigiani più noti e apprezzati di Santo Stefano di Camastra. Che aggiunge: «Quando mio padre, un operaio, mi chiese: “Cosa vuoi fare da grande, il meccanico, il fabbro, il muratore?”. Io gli risposi: “Il ceramista”. Non sapevo nemmeno di cosa si trattasse e perciò da giugno a settembre frequentavo le botteghe. Lì c’era chi faceva il garzone, chi produceva e chi doveva imparare. Io ero tra questi ultimi. Ammiravo ciò che faceva l’artigiano del tempo. Ho quindi acquisito la tecnica, ho imparato il mestiere, un po’ in maniera involontaria. Ma una cosa fondamentale, all’epoca, è stato l’Istituto d’arte, perché proprio lì qualcuno ha scelto me». Mirenda ammette, lasciando sempre più spazio alla memoria: «Ero scriteriato, non avevo ancora capito l’importanza dello studio, però i professori, oltre a volermi bene, avevano visto in me qualcosa che gli altri miei compagni non avevano. Ad esempio, non portavo i miei progetti a scuola. La mia prof. Iana Merlo, allora, mi disse di riporli in un cassetto, di fare i progetti utilizzando i suoi strumenti». Poi, le lancette del racconto si fermano su altri passaggi “chiave”: «Frequentavo la bottega vicino a casa mia. Oggi è impensabile mandare i propri figli “a bottega”. Ho avuto la fortuna di avere questa manualità particolare e riuscivo a modellare bene. È stato il tornio che mi ha fatto capire che davvero quella sarebbe stata la mia strada. Tornio, argilla e acqua: con queste materie prime si forgiano oggetti circolari. Ed è qualcosa di magico, che fa innamorare tante persone». Ma c’è stato anche un momento della vita in cui Mirenda ha pensato ad altro: «A un certo punto, ho abbandonato quella via e aperto un’attività commerciale per tre anni, dal 1994 al 1997. Ci ho anche rimesso parecchi soldi, solo nel tempo libero sfruttavo il mio laboratorio. Sono ritornato alla mia passione perché la ceramica era l’unica cosa che mi dava sostentamento. Sono diventato papà giovanissimo, con cinque figli avevo bisogno di lavorare. E ho ripreso a studiare e perfezionarmi nel settore. Come un’atleta, mi sono prefissato di migliorare le performance ogni giorno. Poi, ho incontrato le persone giuste, quelle che mi hanno fatto capire che ciò che stavo facendo era unico. Tra queste, un posto di rilievo è ricoperto da mia moglie». Focus, quindi, sulle esigenze del mercato, che «sono cambiate tanto. E io le ho colte – spiega il ceramista –. Insieme alla mia consorte mi sono buttato in questo mondo, io anche con la progettazione, lei più con la manualità, per fare andare avanti la filiera della produzione». E l’evoluzione del comparto? «Un tempo creavamo terrecotte, con l’argilla asciugata che entrava nel forno, il classico biscotto di colore rosso, e facevamo il supporto artistico a tantissime aziende, non solo stefanesi, ma anche siciliane. Producevamo vasi, pupi, teste, civette. Abbiamo perfezionato soprattutto le teste, tanto che ci scambiavano per ceramisti di Caltagirone. Ma la vera identità stefanese coincideva con la produzione dell’Istituto d’arte». E oggi? Mirenda evidenzia che «il mercato si è saturato, cosa che avviene ogni 20 anni. Il tempo delle pigne e delle teste dei Mori siciliani è quasi finito. Prima il taglio era di tipo tradizionale e adesso ci si inventa di tutto, senza un equilibrio tra plastico e decorazione. Andavano di moda fino al 2022, fino ad allora c’erano molte richieste, successivamente i prezzi si sono abbassati molto. Ormai, il cliente cerca l’esclusività. Ho aperto vari negozi monomarca ed espongo in altri esercizi». Un passaggio “scontato” è quello del capitolo autostrada: «Un tempo, senza l’A20, Santo Stefano era tappa obbligata. Ma dal mio punto di vista, ci ha perso l’intera economia del paese, non l’artigianato, perché per venire qui da Palermo e da Cefalù ci vuole un attimo». E il marketing, le vetrine? «Siamo sempre alla ricerca di nuove pubblicità e spazi online, parte tutto da noi ceramisti, non abbiamo sostegno e siamo assenti dai circuiti promozionali, penso al confronto con Caltagirone per quel che concerne l’artigianato e ritengo che siamo molto indietro. Qui mancano grosse iniziative di richiamo, come la rassegna internazionale Argillà di Faenza. In quell’evento, facciamo sempre da spettatori. Quest’anno porterò i miei figli per fargli vedere le ceramiche di Picasso». Almeno quello. Una piccola soddisfazione.  

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