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La "paciota" di Messina, quanta storia nell'antico patrimonio della riviera nord...

Era una barca di origine ottocentesca utilizzata sia per la pesca lungo la costa che per i pali marinari. Ecco da dove nasce il suo nome...

Tra gli elementi caratterizzanti il mondo della pesca e delle tradizioni marinare della nostra Riviera Nord troviamo certamente la caratteristica “paciota”, la barca di antico retaggio (sembra sia di origine ottocentesca) utilizzata sia per la pesca lungo la costa che per i pali marinari. Un autentico tesoro, ormai in disuso, del nostro patrimonio antropologico marinaro.

Per avere approfondimenti su questa caratteristica imbarcazione, abbiamo consultato - in collaborazione con Nino Sarica e Rocco Ioppolo, appassionati di cultura marinara - uno dei pescatori più esperti della zona di Paradiso, Antonio De Francesco, 74 anni, pescatore «da chi nascia», campione di tanti pali marinari: da vogatore, prima, e poi timoniere ha partecipato con l’equipaggio di Paradiso, fin dalla metà degli anni ’50, a oltre un centinaio di pali marinari estivi, aggiudicandosi molte di queste gare di antica tradizione.

«La paciota prende il nome dal fatto che veniva costruita in preminenza a Pace dal mastro d’ascia Peppe Federico, e si caratterizza dal fatto che è una barca da pesca a remi dallo scafo snello, sfilato, agile e veloce, dalla poppa verticale (il “primo”, la chiglia, è di circa 10 cm); varia dai 18 ai 26 palmi di lunghezza (un palmo è uguale a 26 cm); «la larghezza massima è di 2 metri e mezzo», ci dice De Francesco, che ha operato per tanti anni come nostromo nelle navi traghetto. Il “pescaggio” è di circa 30-40 cm; esistono paciote da 2-4-6 o 8 rematori; col tempo si è passato dalla vela latina al primo motore diesel attivo a metà anni Cinquanta. «Ormai le paciote, un tempo frutto dell’arte del mastri d’ascia, sono realizzate da macchinari moderni e sono disegnate e progettate al computer», ci dice con un certo rammarico il pescatore di Paradiso.

A bordo delle paciote i pescatori della zona hanno da sempre coltivato la pesca - anche notturna con le lampare - delle tipiche specialità dello Stretto, praticata con i “conzi”: dai sauri ai palamiti, dalle ricciole ai buddaci, dalle ope agli sciabichi e, fino a poco tempo fa, delle tipiche costardelle, ormai sempre più rare nelle nostre acque. Prima del divieto di questa pesca, era uso anche pescare i tonni “nel Canale” con le lenze.

Discorso a parte la pesca, anzi la “caccia” con le fiocine (“a friccina”) alle tipiche “mole”, i pesci luna o tamburo, che emergono durante le correnti (“i controtagli”) di “montante” (a Faro, zona Capo Peloro) e “discenti” (a Galati). La carne delle interiora si cucinava “a ghiotta”, bollita o a insalata; la “scoccia” della mola, la buccia a strisce essiccate, veniva conservata salata (in salamoia) per il tempo invernale, con un procedimento non dissimile a quello usato per il baccalà.
Scrive a proposito Rocco Sisci nel suo classico testo “Barche padroni e marinai” (1988): “Tra maggio e settembre molti pescatori della Riviera si dedicano alla pesca delle mole, grossi animali di forma schiacciata dal profilo quasi circolare e dal colore scuro. “Se ne fa un uso prevalentemente personale”, a causa del sapore “selvatico” delle sue carni e delle “difficoltà di pulizia e di taglio”. Spesso la “caccia alle mole” era praticata come allenamento dai pescatori del pescespada. Una tradizionale pesca oggi pressoché scomparsa, che fa parte della grande storia marinara e di costume dello Stretto.

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