"Un tenero pensiero, una gradevole e gradita iniziativa, quella dei "calzini spaiati" per dire soprattutto ai più piccoli che le differenze, specie quelle di superficie, alla fine non contano poi così tanto. Che le convenzioni sociali di rasserenante, ordinata (e ordinaria) uniformità, come quella di indossare le calze appaiate e tante tante altre, alla fine possono essere giocosamente scardinate senza perdere in funzionalità operativa: le calze sempre calze sono, anche se di forma, tessuto, fantasia, colore disuguale. E i bambini sempre bambini sono, nonostante lo sforzo – a tratti anche questo gradevole e gradito, pur se non conducente – di trovare una sorta di terminologia risarcitoria, che alla fine riesce solo a rimarcare ancora di più proprio quella diversità talmente ingombrante da obbligarci a categorizzarla. Così anche noi, che i calzini spaiati li portiamo – silenziosamente, quanto basta - ogni giorno tutto l'anno da tanti anni, desiderosi di fare "gruppo" decidiamo di partecipare all'occasione di sensibilizzazione che la nostra scuola ci propone. "Amore ecco guarda, domani ci mettiamo le calze diverse, è un gioco, e facciamo una bella foto, senza le scarpe, come i compagnetti". "Mamma, ma no, è tutto sbagliato. Non voglio le calze diverse!". " Ma amore, domani tutti i compagnetti avranno le calze diverse, è un gioco, solo per un pochino. Fate la foto tutti insieme e poi le togli". "Ho detto NOOOO! E' tutto sbagliato! Non va bene!". Per un bambino autistico, uscire fuori dagli schemi, dalla routine, può essere un dramma. Altro che celebrare la diversità: lui nella sua patologica rigidità vuole sempre tutto uguale. E può risultare intollerabile anche portare semplici calze spaiate, o non trovare le pantofole allineate dentro la stessa mattonella, o bere da un bicchiere nuovo. Così arriviamo a un compromesso: indossiamo calze uguali, ma sopra un piedino la maestra - impagabile alleata – posizionerà al volo solo per il tempo della foto un piccolo calzino diverso, giusto per fare come fanno gli altri. E così tutto fila liscio, la foto viene allegramente fuori e si ripete il quotidiano miracolo prodotto dall'insostituibile ambiente classe, con gli altri bimbi finalmente fisicamente vicini, così come gli insegnanti, e il personale scolastico. Taumaturgica realtà, vitale per tutti e per alcuni di più, come ci ha dolorosamente insegnato la Dad (Didattica a Distanza: nozioni e basta, senza tutto il prezioso e non secondario resto), necessaria, certo, ma non per questo meno nefasta. La vicenda in effetti fa un po' sorridere: mentre tutti per un giorno indossano calzini diversi per dire che siamo tutti uguali, noi, che diversi li indossiamo tutto l'anno, celebriamo invece la giornata indossando calzini uguali. O forse, no: solo un pochino diversi, sì, perché il gruppo ti da comunque anche la forza di fare ciò che più ti sgomenta. Spero davvero che quei simpatici bimbi coi i piedini per aria abbiano davvero capito il senso di tutto ciò, proprio loro che dell'esistenza di una strana situazione chiamata "diversità" non sanno nulla, o quanto meno, non hanno ancora capito che costituisce un problema, e che lo è soprattutto per i "grandi". Almeno finché qualcuno non glielo spiega, facendoli per l'appunto implacabilmente sbarcare nell'accogliente mondo degli adulti. Sarebbe il colmo, infatti, che una volta rimesse le scarpe si trovino a chiacchierare sottovoce su quanto è strana quella bambina che si veste in modo curioso, che ha quella faccia così irregolare, o parla malissimo, che zoppica, oppure a dieci anni ancora non sa leggere bene. O su quanto li disturba quel bimbo che ogni tanto borbotta durante la lezione, o che ha bisogno di spiegazioni aggiuntive, o che per un qualunque motivo ricerca ingenuamente la loro attenzione, rallentando gli incalzanti ritmi scolastici e distraendoli mentre devono imparare perchè due per due fa quattro, e così scatenando una catastrofe educativa che minerebbe gravemente il loro cammino spedito verso la laurea e poi magari chissà, la Casa Bianca, meta fortemente auspicata da ogni genitore "normale" per il proprio rampollo baciato da uno sviluppo fisiologico. Che non contempla visite mediche, certificazioni, terapie e adattamenti continui a tutti gli standard, talvolta irraggiungibili, della vita in comunità. Oltre alle tante, troppe categorie che rendono un bambino isolato, un adolescente escluso, un adulto definitivamente emarginato. Diverso, ma no: uguale; normale, ma no: speciale; simile, approssimativamente identico, normodotato, plusdotato, ordinariamente straordinario, straordinariamente ordinario. Handicappato, disabile. Ma forse è meglio dire diversamente abile (o usare la prodigiosa crasi "diversabile", quasi da supereroe) perché-sanno-fare-tante-cose-poverini. Inutili distinzioni, improduttive, anzi controproducenti: servono solo a ricordare tutto ciò che vorremmo dimenticare, alzando gli steccati invece di abbatterli. Al posto di uno sbrigativo sforzo verbale, politicamente corretto, tanto carino ma del tutto astratto, sarebbe meglio uno sforzo pratico, da 0 a 90 anni, scevro da futile retorica e perbenismo: tendere veramente la mano a chi quella mano spesso la rifiuta, o non la sa accettare. A chi viene isolato per gli atteggiamenti che mostra, suo malgrado, non sociali e talvolta non socievoli. Perché - figuriamoci in questo momento...- non sa stare abbastanza a distanza, non sa tossire nel gomito, si dimena un pò, si strappa la mascherina, se ne sta storpio su una sedia a rotelle, non sa parlare o fare silenzio al momento giusto, perché non fa mai ciò che ci si aspetta, o che si dovrebbe fare secondo le succitate convenzioni di conformità collettiva. Un dolce, innocente calzino, tremendo da indossare, che sarà spaiato per tutta la vita. Sua e della sua famiglia. "Mamma, è tutto sbagliato". Quindi, perfetto. O no?" La mamma di un normalissimo, "spaiato" bambino autistico.