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Jennifer, la fuga dall'inferno della Nigeria e la rinascita a Messina che l'ha accolta

«Vengo dalla Nigeria. Mio papà è morto quando ero ancora una bambina e mia madre, da sola, non riusciva a provvedere a tutti i nostri bisogni. Dopo qualche anno ha trovato un compagno. Inizialmente io e i miei fratelli stavamo soli ma poi siamo andati a vivere tutti insieme, perché mamma, preoccupata per quello che ci potesse accadere, ha convinto suo marito ad accoglierci». Il suo sbarco in riva allo Stretto risale al 2016, ma Jennifer, nome di fantasia, è riuscita ad affrancarsi da un destino crudele che altri avevano scritto per lei. E soprattutto a essere di aiuto al Paese che l'ha accolta. Un viaggio lungo, terribile, il suo, e una violenza cominciata tra le mura domestiche.

«Un giorno mia madre - ha raccontato la giovane - è uscita per andare a vendere i pomodori e suo marito è venuto nella mia stanza e mi ha detto di togliermi le mutande. Io ero piccola. Pensavo tra me e me che voleva farmi la doccia ma non era così. Quelle richieste sono andate avanti tante volte. Ricordo che ne parlai anche con mia madre, ma lei non mi credette. Pensava che suo marito non sarebbe stato capace di fare tutto ciò». Le assenze di mamma pesavano, e quella per un funerale, particolarmente lunga, avrebbe pesato più delle altre: «Il compagno di mia madre tornò a bussare alla mia porta. Mi rimproverava il fatto che non volessi dormire con lui e mi disse che avrei dovuto sposare suo fratello. Io cercavo di farlo ragionare e gli dicevo che mi faceva tutto ciò perché non ero sua figlia».

Le lacrime erano amare, e in quella solitudine mista alla paura le veniva ripetuto dall'uomo-orco che ormai era grande, mentre lei ribatteva tra sé e sé che ancora aveva solo 14 anni e che non avrebbe voluto sposarsi: «Una notte si materializzò quell'uomo che avrebbe dovuto diventare mio marito e il mio patrigno mi svegliò di botto per dirmi che dovevo andare con lui. Io temporeggiavo dicendo che dovevamo aspettare mia madre perché in cuor mio sapevo che non avrebbe permesso tutto ciò ». Non c'era tempo da perdere e così la ragazzina senza pensarci due volte in una notte di pioggia scappò. In strada incontrò una signora che la rimproverò e la invitò a tornare subito a casa. Ma lei non poteva e spiegò le sue ragioni.

E dopo aver chiesto aiuto a quella sconosciuta, trovò riparo in una casa semi vuota: «Quando fu giorno il pensiero di tornare indietro mi sfiorò la mente ma sapevo che il mio destino era segnato. Avrei sicuramente dovuto passare la mia vita con quell'uomo che non avrebbe smesso di farmi fare dei figli. Preferivo morire fuori». Il giorno dopo quella donna incrociata la sera prima la invitò, vedendola ancora in giro, a rifocillarsi e le prospettò l'idea di una vita nuova in un altro villaggio dove finalmente sarebbe potuta tornare tra i banchi di scuola che non vedeva da 5 anni. Esplodeva il cuore di gioia perché fino a quel momento aveva visto solo ampie distese di terra destinate per lo più alle coltivazioni di pomodori. Era però l'inizio del buio.

L'indomani un uomo la portò in un posto dove c'erano ammassate 500 persone tra maschi, femmine e bambini: «Mi chiedevo dove fossi, se mi trovavo in un posto dove in realtà facevano morire le persone. Ho trovato una ragazza nigeriana che conosceva il mio dialetto e lei mi ha detto che il nostro viaggio sarebbe continuato». La meta, però, era sconosciuta. Percorrere i passi a ritroso sarebbe stato impossibile e un nuovo viaggio è iniziato alle quattro di mattina per finire alle dieci di sera. L'arrivo poi in un posto che assomigliava ad un lager dove c' erano assiepate 1000 persone e l' unica rassicurazione arrivava dalla compagna di viaggio con l' invito a pregare.

Pane e acqua invece sono state le uniche cose servite: «Una macchina ci ha preso e dopo due giorni e mezzo di viaggio ci hanno portato a Agadés. E lì una signora che si avvicinata a me mi ha detto che avrei dovuto pagare 500 euro». Tutto era chiaro. E un rito vodoo, fatto sotto minaccia, suggellò la promessa di onorare quel debito. E alla fine di tutto la sua lunga chioma fu tagliata.

La prossima destinazione sarebbe stata la Libia: «Abbiamo attraversato il deserto per settimane e molti sono morti, tra cui due bambini, e quando siamo arrivati a destinazione mi sono ritrovata di nuovo in un campo ». Il debito nel frattempo aumentava, e dopo qualche giorno le furono dati dei vestiti nuovi e fu portata in una nuova casa: «Mi hanno dato dei pantaloncini e mi sono trovata in un posto in cui c'erano 5 stanze. Lì mi hanno fatto capire come avrei dovuto pagare. Prostituendomi. E tra me e me pensavo che avrei dovuto fare una cosa bruttissima e accanto a me c' era chi lo faceva già da due anni.».

La giovane non riusciva però a vendere il suo corpo e ogni giorno tornava senza alcun soldo : «Volevo scappare e per un mese mi hanno picchiata. Quando sono arrivate le bollette da pagare le vessazioni si sono fatte più pressanti e così mi sono dovuta adeguare. Non guadagnavo come le altre e al massimo riuscivo a racimolare 10 euro. Un giorno però la signora dove stavo, a cui esprimevo tutte le mie perplessità, mi ha detto che sarei potuta partire per l' Italia ». Così la giovane, ancora bambina , con un telefono piccolo e la disposizione di chiamare un numero preciso è partita.

L'imbarcazione imbarcò acqua e tutti gli oggetti personali furono inghiottiti: «Quando sono arrivata a Messina mi hanno accolto benissimo ma inizialmente avevo paura. E ho raccontato tutto quello che mi era successo». Una volta sbarcata, la ragazza fa richiesta di protezione internazionale, viene accolta in una comunità per minori, comincia a imparare la nostra lingua e il suo sogno di poter studiare, coltivato da fanciulla, prende finalmente forma. E maggiorenne viene trasferita allo Sprar e le viene riconosciuto lo status di rifugiata. Terminato il suo percorso nell' accoglienza ha trovato casa, collabora come mediatrice perché parla più lingue e ha fatto il servizio civile. In riva allo Stretto ha trovato l' amore e a maggio diventerà mamma: «Se la vita è così - ha detto concludendo - è davvero bella».

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