Era il primo luglio 2000 quando monsignor Pietro Aliquò iniziava il suo ministero di cappellano del Monastero di Montevergine, propostogli dall’allora arcivescovo Giovanni Marra. A fare il suo nome pare fosse stato monsignor Francesco Sgalambro, già vescovo ausiliare dell’arcidiocesi messinese e suo predecessore, da poco nominato titolare a Cefalù. Abbiamo ripercorso con monsignor Aliquò questi 19 anni a servizio di un carisma che, a 534 anni dalla morte, continua a essere presenza viva nella città. - Cosa ricorda degli inizi di questo mandato e quale, a 19 anni di distanza, il suo primo bilancio? «Considero una grazia, quella concessami da Dio di essere a servizio del Monastero di Montevergine e, in particolare, della chiesa di S. Eustochia. Per il 25mo anniversario abbiamo invitato l’arcivescovo di Cracovia, il cardinale Stanislaw Dziwisz, già segretario particolare di Giovanni Paolo II mentre, in occasione del 30mo conclusosi da poco, abbiamo voluto organizzare la peregrinatio con il reliquiario della Santa - ancora in corso - nelle parrocchie dell’arcidiocesi». - Qual è il senso di questa peregrinatio? È un modo di “attualizzare” la figura di Eustochia? «I santi, per poterli amare e imitare si devono conoscere. Nonostante le apparenze, la città e anche l’arcidiocesi non hanno una conoscenza profonda della Santa, per questo abbiamo ritenuto urgente diffondere il carisma di Eustochia attraverso la sua reliquia, le lacrime di sangue sgorgate a 5 giorni dalla morte. Io credo che la forza dei santi risieda nella loro attualità, che si manifesta con la testimonianza di vita umana e cristiana». - Perché ha definito S. Eustochia “Abbadessa per sempre”? «È un riconoscimento della sua presenza viva nel monastero grazie al corpo incorrotto, posto in piedi, anche se la sua santità non è legata solo a questo. È stata lei a volerlo, subito dopo la morte: dopo la tumulazione, infatti, manifestò più volte con dei colpi, la volontà di non rimanere chiusa in un’urna. Per questo le sue consorelle decisero di rendere il suo corpo visibile a tutti». - Cosa rappresenta per il Monastero e per la città la lampada donata dalla Fondazione “Bonino Pulejo”? «È un segno che ricorda dal punto di vista spirituale la luce della fede e, da quello culturale e sociale, la presenza della città che rende grazie e fa memoria affidandosi all’intercessione di S. Eustochia Smeralda, membro e compatrona a pieno titolo di Messina. Il merito della Fondazione è quello di aver concretizzato il riconoscimento di una presenza e di un legame assai forte tra la città e la Santa, modello di vita civile, sociale e spirituale». - Il gioiello realizzato dal maestro argentiere Francesco Cosio riporta alcuni elementi fondamentali di Messina e della sua devozione a Eustochia e alla Madonna della Lettera? State programmando qualche iniziativa per presentarla alla cittadinanza? «Sì, stiamo pensando a una presentazione ufficiale soprattutto perché questa lampada “parla” della città e di Eustochia, attraverso l’evento straordinario della canonizzazione, avvenuta a Messina l’11 giugno 1988, in un connubio che dura da secoli e si va rafforzando ogni giorno di più. Mai, prima di allora, una santa era stata canonizzata al di fuori delle mura vaticane. Tra le particolarità iconologiche della cesellatura, mi piace sottolineare la presenza delle grate dalle maglie larghe, segno del carisma della vita claustrale quale dono totale a Dio ma anche alla chiesa e al mondo». Leggi l’articolo completo su Gazzetta del Sud – edizione Messina in edicola oggi.