Nell'album mentale dell'immaginario collettivo l'ambasciatore è una figura incorniciata in un alone ieratico, rigoroso, delimitato da rigidi formalismi, polverosi protocolli e cene inappuntabili. È l'ospite straniero di riguardo per antonomasia, cinghia di trasmissione dei rapporti diplomatici e avamposto della politica estera. Ma se l'ambasciatore è il tedesco Viktor Elbling, da un anno in Italia, allora l'immagine canonica riflette in parte un pregiudizio, o comunque un giudizio superato da un ruolo sociale moderno, vissuto «dal basso» nel rapporto con i cittadini, tra un caffè e una passeggiata in Vespa. È con questo spirito che si sta muovendo in giro per l'Italia, forse per disappannare il profilo di una Germania percepita come gendarme dell'Europa, con vocazione espansiva (sugli aeroporti in Grecia sventola la bandiera tedesca); forse per allargare i canali di accoglienza per i giovani italiani alla ricerca di una prospettiva occupazionale (il calo demografico e la carenza di manodopera qualificata non hanno confini geografici). Sicuramente per convincerci a prendere coscienza, senza rifugiarsi nell'alibi dell'Europa “vampira”, chiave populista che, però, riflette verità che sarebbe pericoloso continuare a ignorare. Secondo lo scrittore inglese Ian McEwan l'affermazione di movimenti e partiti populisti, il rigurgito dei nazionalismi, rappresentano l'effetto collaterale di una più insidiosa irrazionalità e irragionevolezza. Condivide questa tesi? «Penso che stiamo vivendo un periodo di transizione. Capisco che ci siano molti cittadini che si sentono insicuri di fronte ai rapidi cambiamenti in corso nel mondo. Da qui la sensazione di smarrimento e la ricerca di un orientamento. Tocca alla politica dare risposte, anche se è comprensibile l'interrogativo di una parte della popolazione che si chiede: “dove stiamo andando?”. Ma sono convinto che le risposte arriveranno. In Germania la destra estrema si è fermata intorno al 10% e non penso che andrà oltre. Però voglio sottolineare che alcuni temi, sollevati anche da questi movimenti, non devono essere trascurati ed è importante per una democrazia accogliere la possibilità di discuterli. Dall'altra, però, occorre seguire la rotta della democrazia e dello stato di diritto, questa è la nostra base». Democrazia significa anche comunità e non rapporti di potere tra stati, con quelli più forti che esercitano un ruolo egemonico. «Abbiamo costruito insieme un percorso di regole e quando qualcosa non funziona c'è la tendenza di scaricare le responsabilità su altri. Ma l'Europa siamo noi e gli stati hanno ampi margini per elaborare politiche autonome, come nell'ambito fiscale. Possiamo cambiare, scegliendo insieme nuove formule. La Germania è un paese profondamente europeista, basta guardare alla sua storia, agli interessi e alla posizione geografica. La ragion di stato di qualunque governo tedesco è mantenere salde le radici in Europa, in un'ottica decisionale di cooperazione. È il consenso che va ricercato in tutte le decisioni importanti e nessuno può imporre la sua volontà. Naturalmente la Germania, l'Italia, la Francia e la Gran Bretagna hanno un peso specifico più rilevante ma come diceva Henri Spaak, ministro belga del dopoguerra, esistono paesi piccoli e paesi che ancora non hanno capito di essere piccoli. Quelli che attribuiscono un ruolo egemonico al governo tedesco non conoscono la Germania. Abbiamo piuttosto un tema da affrontare, quello di assumere le responsabilità». E condividerle senza riserve, visto che sui migranti l'Europa è allergica alla solidarietà concreta. «Non c'è dubbio che sul tema della migrazione l'Europa non abbia agito nel migliore dei modi. Le regole di Dublino non hanno permesso di affrontare nel modo corretto il fenomeno lasciando maggiormente esposti paesi come l'Italia e la Grecia. Ma governare il processo attraverso i muri non è la soluzione, bisogna farlo in modo intelligente». Sta interpretando la sua missione in una versione più dinamica, fuori dalla camicia di forza della diplomazia tradizionale, cercando un rapporto diretto con i cittadini. È forse questo l'approccio che manca all'Europa? «Non manca solo all'Europa, ma è un vuoto che si avverte anche nella politica comunale. Occorre più apertura nei confronti del cittadino, più dialogo. E questo richiama il senso collettivo di responsabilità che coinvolge i governi e i cittadini che fanno l'Europa. Siamo noi la società. Lei è figlio di madre italiana. Che cosa significa avere questa radice? «È un patrimonio che mi ha dato tanto, la cultura, la lingua e la capacità di comprensione in un rapporto speciale tra Germania e Italia. Abbiamo costruito molto insieme e l'Unione europea rappresenta un modello che dobbiamo difendere e migliorare».