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A Taormina Capossela, ovvero un rito che rigenera

Nuove idee e sonorità per lo storico «Camera a sud». E il pubblico impazzisce

Quando trent’anni fa uscì «Camera a sud» Vinicio Capossela era al suo terzo album. Quattro anni prima aveva incantato pubblico e critica con «All’una e trentacinque circa», che gli era valso il suo primo Premio Tenco, premio a cui si abbonerà, e l’anno dopo si era confermato chansonnier d’eccezione con «Modì». Ma è con «Camera a sud» che il suo talento affabulatorio e la sua visione del mondo hanno avuto la consacrazione e lo hanno fatto conoscere anche a livello internazionale. Quindi riproporre quell’album oggi non è un un’operazione nostalgica («D’altronde la nostalgia è di destra», per usare le sue parole), ma significa confrontarsi con se stesso e il percorso compiuto fino a qui, fatto di tanti altri successi e di riconoscimenti che per lui affondano lì, in quelle tredici canzoni che compongono l’opera. E questo il pubblico che numerosissimo ha affollato venerdì sera il Teatro Greco di Taormina lo ha ben compreso, applaudendolo e incitandolo, cantando i passaggi cruciali dei brani in una sorta di rito collettivo di reciproco riconoscimento che è poi l’essenza stessa di un concerto.
Quindi bene ha fatto Taormina Arte a chiamare Capossela perché compisse questo rito di rigenerazione qui, tra le pietre antiche di uno dei monumenti più belli dell’antichità. L’inizio è in tono volutamente intimo con «Non è l’amore che va via», in cui si canta l’amore che non riesce mai a compiersi, che abita l’esilio ed è sempre fuori tempo, per poi subito investire la platea con l’energia di «Zampanò», esplicito omaggio al cinema di Federico Fellini e al personaggio di Gelsomina. Quindi torna a toni più meditativi con «Amburgo» per riesplodere con uno dei sui brani di maggior successo, «Che coss’è l’amor», che fa cantare tutto il teatro, quindi «Il mio amico ingrato», «Fatalità» e «Camminante», in cui lo stile narrativo e musicale di Capossela si esplicita ulteriormente.
Seguono «Furore», «Ma l’America», che ricorda la sua collaborazione teatrale con Paolo Rossi, e «Fantasma delle tre». E se i brani eseguiti sono proposti nello stesso ordine del 1994, non sono gli stessi gli arrangiamenti, che in origine erano del grande Antonio Marangolo e ora invece trovano nuovi umori e nuovi stimoli in territori musicali mai battuti acquistando significati inediti.
Vinicio Capossela, di nascita tedesco ma di orgogliose radici irpine, è un l’ultimo esemplare di quella nobile schiatta dei cantautori duri e puri, muovendosi con grande disinvoltura tra Tom Waits e Paolo Conte, non disdegnando Renato Carosone, che lui giudica un maestro, senza dimenticare il profetico Jeff Buckley di «Grace». Ma con significative peculiarità. La sua innata curiosità, il suo senso del ritmo, l’amore per la citazione letteraria ad oltranza (da Novalis a Joseph Conrad, Henry Miller, John Fante), la sua ironia, il senso tragicomico della vita lo portano ad esplorare territori musicali sempre nuovi, per trovare il lato dionisiaco dell’esistenza, come nel caso dell’orgiastico «Ballo di San Vito» che trascina ed esalta il pubblico.
Dal jazz alla musica popolare, dai ritmi latini al tango argentino, dal rebetiko al klezmer Capossela ci accompagna in un viaggio in cui esistono differenze ma non pregiudizi, persone e non figuranti, sentimenti e relazioni umane. Non per nulla la sua ispirazione originaria viene da un centro culturale, che egli trasfigura in una sorta di luogo fantastico, come il «Florida» di Modena dove s’incontrano migranti e ubriaconi, musicisti di tango e donne di mondo, a metà strada tra Pier Vittorio Tondelli e Francesco Guccini, che al suo successo contribuì non poco.
Il concerto si avvia verso il finale proponendoci un brano come «All you can eat» (Tutto ciò che puoi mangiare), il manifesto giusto per i tempi che viviamo dove non esistono più limiti e tutto è possibile. Uno slogan che dalla cucina tracima nella realtà di tutti i giorni, dove ingozzarsi è l’unica cosa che importi e che ci rappresenta realmente. Per chiudere con una canzone che dà il titolo all’album, «Camera a sud», in un’inedita veste sonora che cattura e incanta, rivelando la felicità di scrittura dell’autore, che tra l’altro è anche un romanziere di successo.
Il bis è d’obbligo ed è di quelli che toccano il cuore e la memoria, con «Ovunque proteggi», in cui Capossela canta la “grazia”, cioè quella condizione d’animo che predispone al bello. Il pubblico canta con lui, applaude, batte le mani, lo chiama a gran voce. Il congedo è da brividi con i musicisti sul proscenio e gli spettatori che vorrebbero ancora un bis. Ad accompagnare Capossela una band d’eccezione formata da Enrico Lazzarini al contrabbasso, Giancarlo Bianchetti alla chitarra, Zeno De Rossi alla batteria, Raffaele Tiseo al violino, Cecilia Costanzo al violoncello, Michele Vignali al sax, Luca Grazioli alla mezza tromba e Tony Cattano detto Tony Mentina al trombone.

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