Quella l’hanno lasciata a noi. Schierati sul palco, l’hanno eseguita nel modo più semplice e contenuto, mentre noi, il pubblico che affollava l’arena del Giardino Corallo, spazio storico di Messina, eravamo tutti in piedi, a cantare a squarciagola – qualcuno agitando il pugno chiuso, qualcuno una bandiera della pace, o palestinese, o uno striscione «No Ponte» – una canzone che è stata più d’un simbolo, è stata uno strumento di lotta e d’appartenenza per milioni di persone nel mondo. Loro, gli Inti-Illimani, col giovane cantautore italiano Giulio Wilson assieme nell’acclamato «Agua World Tour» – perché la musica è anche mescolanze e combinazioni, e salta e armonizza generi e generazioni – hanno guardato noi cantare con loro, protenderci nel tempo e tra i mondi, intonando le parole immortali di «El pueblo unido», l’inno alla speranza che, malgrado le innumerevoli volte in cui il popolo è stato «vencido» (lo sanno loro, cileni e sudamericani tormentati dalle dittature, lo sappiamo noi dell’Europa sempre in lotta coi nazionalismi-zombie che risorgono e i nuovi populismi che li accolgono, lo sa tutto il mondo delle guerre e delle disuguaglianze), continua a funzionare, a muovere speranza. Come continuano a funzionare loro, gli indomiti musicisti in tour mondiale, di cui quella del Giardino Corallo, nella stagione dell’associazione culturale Development, era l’unica tappa siciliana. L’ha detto dal palco Jorge Coulón, 76 anni, uno dei fondatori, ma non propriamente il frontman, in una formazione in cui tutti suonano tutto, tutti cantano, tutti concorrono a una cifra corale e collettiva che è una delle cose più affascinanti e coinvolgenti della loro musica: «Ieri (il 6 agosto) questo gruppo ha compiuto 57 anni, e ha scritto più di 500 canzoni…». Ha scritto ben più che canzoni, nei cuori di milioni di persone, e si poteva vederlo persino in un afoso giardino messinese d’agosto, affollato di giovani e antichi giovani e giovanissimi (alcuni venuti da molto lontano), perché la musica ha un modo tutto suo di viaggiare fra i mondi, e la musica degli Inti-Illimani, come quella dei veri miti, ha questa qualità inconsumabile. Giulio Wilson, fiorentino, cantautore (ed enologo) già pluripremiato e con eccellenti collaborazioni, ha aperto con tre sue belle canzoni (soprattutto «Finale all’italiana»), mostrando subito la cifra gentile e sofisticata della sua musica, accesa da giochi di parole e vertiginose allitterazioni mai fini a se stesse, sempre portatrici di senso (e dissenso) e ironia tagliente ma mai feroce, dove «pinza» può far rima con «resistenza» e «Giuseppe Verdi» accostarsi a «Montagne verdi». Poi, è stato il diluvio: si chiama «Agua» l’album fatto assieme dalla band quasi sessantenne (sul palco ieri c’erano Jorge Coulón, Marcelo Coulón, Christían González, David Azán, Camilo Lema, Juan Flores Luza, César Jara, Efrén Viera) e dal giovane cantautore, tutti perfettamente coetanei (con loro, i musicisti italiani Roberto Bassi e Adriano Arena). Acqua, l’elemento della vita, la più grande preoccupazione per il futuro del pianeta. Lo ha detto in perfetto italiano (che il loro esilio italiano, ai tempi del golpe cileno, fu molto lungo), nel suo modo garbato e mai retorico, di combattente potente ma sommesso, Jorge Coulón: «Una volta sembrava una risorsa infinita, l’acqua, e ora…». Ora è la battaglia di oggi e di domani – pure se, sottolineano a proposito di battaglie e di risorse, «lo avessimo fatto oggi, l’album l’avremmo chiamato Pace...» – e anche un principio vitale e una metafora assoluta («Somos agua y sentimiento/Somos agua, somos vida»). E ci sono – nella loro musica, nelle loro voci – tutte le battaglie vecchie e nuove, mentre alle loro spalle lo schermo si anima d’immagini di cortei e proteste identici a quelli di ieri. Parlano persino di una cosa che qui (dove non tornavano dal 1976) sta molto a cuore, strappando i più lunghi applausi: la battaglia contro il Ponte sullo Stretto. «Siamo qui, in questa città bellissima che siamo contenti di ritrovare dopo tanti anni, per costruire i ponti veri, culturali e umani, per condividere la nostra umanità in tutto il mondo», hanno detto. Dopo che Giulio Wilson aveva ricordato: «Quelli che oggi vogliono il ponte, ieri volevano dividere l’Italia. Quelli dei “muri” nel mare...». Il loro ponte di bellezza ri-suonava nei suoni antichi dei loro strumenti, della loro musica mai invecchiata – semmai «come il buon vino: qualcosa di vivo in eterno cambiamento, strutturato e non passito», ha detto l’enologo-cantautore Wilson – e sempre disponibile ad accogliere il nuovo e con-suonare assieme: non c’è stato ricordo o museo, non c’è stata retorica, solo vita, acqua corrente, dalle alture nevose al sale dei mari. Tra «Mia Bella ciao», re-invenzione sulla celebre canzone di lotta, e «Revuelta», tra le antiche «Alturas» disegnate dai fiati vertiginosi e l’imprevedibile napoletano di «Canna Austina», tratta dall'opera di Roberto De Simone «Cantata per Masaniello» (sì, i Sud del mondo suonano assieme ogni volta che possono), tra il «Sostenibile», che da slogan un po’ antipatico diventa condivisione sentimentale, e la bellissima «Chile Es Un Camino»: perché «ci siamo chiesti se il nostro è un paese o una metafora, e qui abbiamo ipotizzato sia una strada». E forse tutti i paesi sono metafore, «ferite e cicatrici» eppure strade da percorrere. E nel cuore di quella strada suonata e immaginata brillava – cantata in coro, armonizzata, vibrata, andina ma universale – la parola «utopia». Tante, le parole: anche quell’ «identità» che oggi sulle labbra di alcuni fa rabbrividire, e invece per gli Inti-Illimani ha sempre fatto rima con «umanità». Sul palco ci sono stati anche i numi tutelari di sempre, Victor Jara (scorrevano le sue immagini, mentre sul palco scorreva, al ritmo trascinante del galope, la sua «El aparecido»: «Correlé, correlé, correlá, correlé que te van a matar») e Violeta Parra («la nostra Giovanna Marini», l’ha chiamata Jorge), e il suo poetico, straziante «Rin del angelito», dedicato ai bambini che muoiono (lo sapete dove, vero?)... Non occorreva conoscere le canzoni: vecchie e nuove le ri-conoscevamo tutte, animate nel profondo da quel suono di zampogna, e quechua, e charango boliviano e bombo e tres cubano, e nemmeno un’ombra di suono elettronico o plug-in o supereffetto digitale. Ma non per passatismo o luddismo musicale: perché gli Inti-Illimani, e Wilson con loro, sono artigiani della musica (anche l’album «Agua» è completamente acustico, senza utilizzo di elettronica o computer), e le fanno loro, coi fiati le voci le mani le corde i tasti i tamburi, tutte le modulazioni che gli servono. Sul finale, una gradita presenza sul palco: Denise Di Maria, musicista siciliana studiosa di ritmi di altri Sud. Assieme a lei hanno eseguito l’avvolgente, tropicale «Sobre tu playa», «San Benito» e la corale, bellissima «Vale la pena», la più bella, forse, tra le canzoni bilingui di «Agua». «Abbandona la fretta, coltiva la pazienza», dice; dice di «dare un senso al dolore, coltivare un cuore cosciente» e «fare la propria parte». C’è qualcosa di più rivoluzionario, di più pieno di futuro?